Tra immaginazione e realtà, tra vita e letteratura, scorre la breve esistenza di Franz Kafka. Breve ma destinata a lasciare la sua ombra su tutta la letteratura successiva.
Dalle tavole di "Kafka - Diario di un disperso" di Mauro Falchetti e Luca Albanese emerge soprattutto la mancanza di un confine tra letteratura e vita, un miscuglio vorticoso, che nasce dalla difficoltà di vivere o che rende difficile vivere. Una vita che è il prolungamento "dell'esitazione prima della nascita", con un nemico che non sta all'esterno ma che è interno, nell'autore stesso, un fruscio, un fischio che lo accompagna.
Come disse Marcel Reich Ranicki, Kafka scrisse sempre di se stesso, della sua difficoltà nei rapporti, della sua mancanza di una patria (e del vagheggiato viaggio in una Palestina idealizzata), dell'ebraismo (anche se nelle sue opere non viene mai nominato).
Come nel Processo, in cui Elias Canetti riconobbe la rappresentazione del suo rapporto con Felice Bauer.
Ho comprato questo libro dopo aver letto il saggio di Rüdiger Safranski, filosofo e critico allievo di Adorno, e dopo aver ripreso il bellissimo libro di Pietro Citati. Ho anche riletto alcuni racconti, che da tanti anni non rileggevo. Non ho sempre amato Kafka, non sempre lo amo. Resta un autore che attrae e respinge, che scrive ma non vuole svelare. Non a caso chiese all'amico Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti.
Eppure mi impressiona sempre l'idea che morì credendo di essere un fallito, incapace di lasciare la famiglia d'origine, incapace di crearne una sua, incapace di portare a termine la maggior parte dei suoi lavori letterari. È stato uno dei più grandi autori di tutti i tempi, ma non l'ha mai saputo.
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