lunedì 30 novembre 2020

L'estate - Albert Camus

 


«Nel mezzo dell'inverno ho scoperto infine che esisteva in me un'estate invincibile.»


"Ritorno a Tipasa" è forse il più famoso dei saggi che compongono "L'estate", uno dei libri più belli di Camus, quello in cui esprime il suo amore e la nostalgia per l'Algeria («Speravo, credo, di ritrovare una libertà che non potevo dimenticare»).

È un viaggio per le città algerine, che parte da Orano, il luogo in cui in seguito avrebbe ambientato "La peste", e fin dall' inizio si ha l'impressione di aggirarsi tra le strade soleggiate di una città di pietre antiche, di sassi rossi, di polvere. Una città sul mare ma che, invece di aprirsi verso il mare, «volta le spalle al mare, che si è costruita attorno a se stessa, come una lumaca.» È un labirinto e il Minotauro si rivela essere la noia, che trattiene i suoi abitanti e li divora.

Le città algerine sono simili a quelle italiane e a quelle spagnole, ma sono «città senza passato.» Eppure tra queste poche pagine si consuma la nostalgia per un tempo lontano, per tutte le cose che non ritornano, per gli anni giovani che sono persi.

«Sono cresciuto sul mare e la povertà mi appariva fastosa, poi ho perso il mare, allora tutti i lussi mi sono apparsi grigi e la povertà intollerabile.»

lunedì 23 novembre 2020

Il dono - Vladimir Nabokov

 In una giornata dal cielo coperto ma luminosa, qualche minuto prima delle 4 pomeridiane del 1° aprile 192... (un critico straniero ha fatto rilevare che molti romanzi, per esempio tutti quelli tedeschi, iniziano con una data, ma solo gli autori russi, in virtù dell'originale onestà della nostra letteratura, tacciono l'ultima cifra) all'altezza del n. 7 di Tannenbergstrasse, in un quartiere occidentale di Berlino, si fermò un furgone per traslochi molto lungo e molto giallo, aggiogato a un altrettanto giallo trattore affetto da ipertrofia delle ruote posteriori e con le forme impudicamente esposte. Sulla fronte del furgone si scorgeva la stella di un ventilatore, e lungo tutta la fiancata correva il nome di una ditta di traslochi, scritto in cubitali lettere turchine ognuna delle quali (compreso il quadrato di un punto) aveva il bordo sinistro profilato di nero: disonesto tentativo di penetrare nella dimensione successiva.


"Il dono" (Dar il titolo originale) è l'ultimo romanzo russo di Nabokov, il romanzo con cui l'autore si congeda dalla letteratura russa ("Rinuncerò a tutto quello che ho - la mia lingua") e forse è anche il primo romanzo russo del Novecento. Lo lessi più di vent'anni fa e sono contenta di averlo letto allora, quando avevo letto da poco Puškin e Gogol, altrimenti avrei perso molte delle sfumature e dei rimandi che lo fanno grande, in un dialogo continuo con la letteratura russa che l'ha preceduto. Un romanzo ma anche un genere nuovo, che unisce il saggio e l'autobiografia. Un gioco e un libro monumentale, fatto di specchi e di riflessi.

Ma c'è anche qualcosa che punta al futuro, c'è la scena in cui il mellifluo Ščëgolev, l'antisemita che ha sposato una vedova, il cui primo marito non gli avrebbe permesso di mettere piede in casa sua, dice al protagonista: «Eh, che romanzetto tirerei giù se avessi un pochettino di tempo!... un maschio vecchio ma ancora nel pieno delle forze, focoso, assetato di felicità, conosce una vedovella con una figlia che è ancora una bambinetta...»



In seguito Nabokov pubblicò ancora in russo "Invito a una decapitazione" e una novella che negli anni successivi riscrisse in inglese, ampliandola e approfondendo alcune parti. Un "romanzetto" che forse gli costò il Nobel, per l'argomento immorale e per il modo in cui trattò l'argomento, ma se "Il dono" lo fece uscire dalla letteratura russa, Lolita lo fece entrare in quella americana.

martedì 17 novembre 2020

L'architettrice - Melania Mazzucco


La Mazzucco me la ricordo lontana e piccola piccola, alla Feltrinelli, a una presentazione a cui ero arrivata tardi, subito dopo il lavoro, e mi ero fermata vicino all'ingresso. Era autunno, come adesso, avevo letto Vita ad agosto, durante gli ultimi giorni di vacanza, e ci pensavo ancora, perché la storia di Diamante è una di quelle storie che ti restano dentro, con tutta la malinconia di quello che sarebbe potuto essere e invece non è stato. Anche la storia di Plautilla Briccia è una storia di quello che sarebbe potuto essere e non è stato, ma Plautilla, a differenza di Diamante, non è vittima delle circostanze e delle occasioni perse. Plautilla "trova la libertà dove la cerca" e la cerca sempre nella sua arte, nei suoi dipinti, nel Vascello o Villa Benedetta, la sua costruzione che resiste al tempo per secoli. Figlia del Briccio, scrittore di commedie, attore, matematico, pittore, "solo un nome triste nella storia del teatro italiano", sarà lei a diventare famosa, a lasciare che il suo nome attraversi la storia e ogni tanto riaffiori, per poi scomparire di nuovo. Come la sua Villa, anche Plautilla sopravvive al suo tempo, ai fratelli, ai nipoti, agli amici, in una giovinezza infinita, che non la vedrà mai invecchiare davvero. "Architetto no. Architetta? Suonava ridicolo. La donna pittore è una pittrice, la donna miniatore miniatrice. Architettrice, dunque."

E la sua storia si incrocia con quella di Roma, che piano piano prende forma, trova le sue opere, i suoi monumenti, attraverso gli intrighi papali, le famiglie che si alternano, le lotte per il potere. Così mi è venuta una gran voglia di tornarci e questa volta di cercare lei, la presenza silenziosa, che ha sparso le sue tracce restando nell'ombra, perché anch'io sono stata una di quei turisti che, quando entravano in San Giovanni dei Francesi, passavano davanti alla sua cappella "come un intralcio, cercando i quadri di Caravaggio".

Soprattutto però quando diciamo che la letteratura italiana contemporanea è stanca, finita, non all'altezza del passato e nemmeno di quelle straniere, dovremmo ricordarci dei libri di Melania Mazzucco.

lunedì 9 novembre 2020

La sabbia non ricorda - Giorgio Scerbanenco


La ragazza si accucciò vicino all'uomo steso sulla sabbia, a viso quasi in giù, per vederlo meglio. Era il principio dell'alba, il mare aveva smesso di battere sulla riva come aveva fatto tutta la notte; adesso arrivava sulla spiaggia lentamente, senza rumore, quasi un quieto lago. L'uomo stava bocconi, a gambe larghe, come fosse malamente caduto, la faccia a metà affondata nella sabbia. La ferita che aveva al collo era larga e, sotto, la sabbia era più scura. In alto, invece, il cielo diveniva di attimo in attimo più chiaro, benché tutto sulla terra fosse ancora un poco grigio, il mare, la striscia larga di spiaggia che correva a destra e a sinistra solitaria e come senza fine, e la boscaglia oltre la spiaggia.

L'uomo era giovane, aveva i capelli ricci, nerissimi e lucidi. La ragazza, accucciata vicino a lui, pensò in tedesco: "Molto unti". Ricordava la sensazione di unto provata la prima volta che glieli aveva carezzati. Anche la camiciola bianca con le maniche corte era macchiata di sangue.,sulla spalla destra. La ragazza si sollevò in piedi e pensò in tedesco: "Non me ne importa niente." Le faceva ancora un po' male una gamba per il violento calcio che egli le aveva dato a uno stinco. Il vento le muoveva delicatamente i fragili, scoloriti capelli biondi. Si guardò intorno: nessuno. Anzi, si poteva dire: niente, perché a quell'ora, nel colore grigio che confondeva ogni cosa, era come se tutto intorno fosse il niente. Il cielo non aveva più stelle, e non aveva ancora il sole, ed era come un vuoto.


"La sabbia non ricorda"  di Giorgio Scerbanenco è il primo giallo della mia vita. L'avevo trovato allegato a una rivista e lo lessi avidamente durante una settimana di giugno sulla spiaggia di Deiva Marina. Le immagini mi scorrevano davanti come quelle di un film, era facile immaginare i luoghi e i personaggi. Soprattutto i personaggi mi restarono impressi, tratteggiati con attenzione, nella loro dimensione psicologica, che tendeva ad oscurare un po' la vicenda dell'omicidio.

Forse è colpa di questo libro se non sono una gran lettrice di gialli, perché raramente, in seguito, ne ho trovato qualcuno che mi sia piaciuto così tanto.

domenica 1 novembre 2020

Herzog - Saul Bellow

Se sono pazzo, per me va bene, pensò Moses Herzog. 



Per due anni di seguito me lo sono portato in vacanza, ma è rimasto sul tavolo dell'albergo mentre leggevo altro. Non che non avessi voglia di leggerlo, ma sapevo che dovevo aspettare quel momento particolare in cui potevo dedicargli più del tempo necessario alla lettura. Poi, all'ultimo, mentre stavo partendo per un ultimo weekend d'estate, l'ho infilato nella borsa, perché finalmente quel momento era arrivato.

Faccio fatica a definirlo un romanzo, perché in realtà è un libro sulla vita, sulla natura umana, un libro in cui non succede nulla ma in realtà succede tutto, perché in circa 350 pagine si srotola tutta la vita di Herzog. È un libro di pensieri, di elucubrazioni che svelano una vita intensa e vissuta profondamente: "Se te ne fregassi, non importerebbe. Potresti sposare altre cinque mogli. Ma con l'intensità con cui fai qualsiasi cosa... e il tuo talento per la scelta fatale". 

Nel momento in cui non esclude la possibilità di essere pazzo, Herzog vede per la prima volta con lucidità la sua intera esistenza. È un uomo di cultura che, seppure in modo diverso dai suoi fratelli, è riuscito "nella sua battaglia ebraica di piantare solide radici nell'America WASP". Eppure, nonostante tutto, resta un outsider nel paese in cui vive, ma anche nella famiglia dalla quale proviene e nelle due famiglie che ha costruito, con due donne molto diverse.

C'è moltissimo in questo libro che forse, come suggerisce Piperno, si presta più ad una lettura che prescinde dall'ordine delle pagine. Sempre come dice Piperno: «E tutto sommato non è necessario che Saul Bellow venga letto da milioni di persone. Basta che sia letto da chi ha voglia di farlo. Basta che sia letto da me.» Da adesso verrà letto anche da me.