martedì 25 dicembre 2018

Il fuoco amico dei ricordi (Persecuzione - Inseparabili)

"Era il 13 luglio 1986 quando un imbarazzante desiderio di non essere mai venuto al mondo s'impossessò di Leo Pontecorvo."

Il vero motivo per cui ho comprato questo libro è che mi piaceva il titolo. Non avevo mai letto nulla di Piperno, eccettuato qualche articolo su Philip Roth. Qualche anno fa avevo letto un'intervista su Io Donna, probabilmente in occasione dell'uscita di Inseparabili. Non ricordo nemmeno se l'avessi letta tutta, ricordo però la foto di un uomo biondiccio, che mi aveva ispirato una forte antipatia e tolto la voglia di leggere qualsiasi cosa avesse scritto.
Poi ho letto gli articoli su Roth e dopo ho trovato, per caso, questo libro alla Mondadori o alla Feltrinelli. Questo libro che è un unico romanzo, ma che in realtà sono due, fortemente uniti e legati stretti tra loro. Un lungo romanzo, che attraversa venticinque anni e che si ripiega in una serie di flashback, a partire da quel 13 luglio 1986 in cui Leo Pontecorvo viene accusato di un fatto odioso. Leo è un uomo buono, un medico importante, uno che ama il lusso e il consumismo in modo innocente. È il figlio debole e mai cresciuto di una madre invadente, il marito vigliacco e per niente pratico di una moglie superefficiente. Una moglie che saprà reinventarsi una nuova vita anche dopo di lui, anche nonostante lui. E che imporrà ai loro figli la tacita regola di non nominarlo mai. Così di Leo non resta altro che una serie di gesti e di giri di parole tra i suoi figli, entrambi cristallizzati nei loro specifici ruoli.
È un romanzo di ruoli e di immagini. Soprattutto di quelle immagini che restano appiccicate addosso e che impediscono alla realtà di venire a galla. Come l'immagine di un tizio, che fa lo sport sbagliato e che indossa dei vestiti odiosi. O forse come quell'immagine che avevo trovato su Io Donna. 

domenica 7 ottobre 2018

Berta Isla

L'ho finito stanotte. Come con tutti i libri di Marías, anche questa volta mi sono trovata avvolta nella spirale serrata del suo racconto, a seguire i pensieri dei suoi personaggi. Alla mattina non vedevo l'ora di salire sul metrò e leggerlo; durante il giorno, quando prendevo qualcosa dalla borsa e lo toccavo, ero felice perché, dopo qualche ora, sarei stata di nuovo sul metrò a leggerlo.
Una storia tutto sommato abbastanza prevedibile, una rivisitazione in chiave moderna di Penelope e Ulisse. Eppure una storia in cui ogni pagina chiama la successiva, in cui la tensione resta alta fino alla fine. Perché il vero romanzo si srotola attraverso le digressioni e le sensazioni dei protagonisti, la loro interpretazione delle loro vite, di quello che è successo.
Sono tanti i rimandi letterari, dalle poesie di T. S. Eliot, a Balzac, all'Enrico V di Shakespeare, all'impossibilita di Tom di dormire veramente, così simile a quella di Macbeth. Ho amato però soprattutto i balconi di Berta, così vicini alle finestre di Pinter, il suo guardare la città da quelle tre diverse prospettive, restandone comunque al di fuori, come è rimasta sempre un po' al di fuori della vita. Soltanto una volta si è buttata nella mischia, quando era molto giovane e ha partecipato a un corteo. È da quei balconi che anche Tom guarderà la vita con un'inaspettata nostalgia quando si sentirà escluso, dopo essersi sentito escluso, per tanti anni, dalla vita vera, che aveva scelto e che avrebbe voluto vivere.

mercoledì 26 settembre 2018

Le fedeltà invisibili - Delphine De Vigan

Théo vive diviso in due, una settimana con una madre rancorosa e arrabbiata che, quando lo rivede, gli intima di fare subito una doccia per togliersi di dosso i residui della settimana trascorsa nella casa del padre. Una casa buia e sporca, in cui il padre si trascina tra il letto e il divano. Théo prova pena e vergogna per quel padre, che gli chiede di non dire che ha perso il lavoro, di non dire che la sua nuova compagna se n'è andata. È la fedeltà dei figli che proteggono sempre i genitori. Lo sa Hélène, l'insegnante di scienze, che riconosce in Théo qualcosa della sua infanzia in balia di un padre violento. Un'infanzia che l'ha segnata nel corpo e nella mente. È la fedeltà degli adulti verso i bambini che sono stati e che vorrebbero rimettere a posto le cose.
E poi c'è Mathis, l'unico amico di Théo, l'unico che conosce il suo segreto, il compagno con cui si nasconde per bere fino allo stordimento. La famiglia di Mathis è all'apparenza perfetta e unita, ma nasconde una rete di bugie e di incomunicabilità tra due genitori molto diversi, che lentamente si sono allontanati. E Cécile, la madre, vede in Théo una cattiva compagnia per suo figlio, mentre vede emergere in Mathis il retaggio della sua famiglia di origine, di un padre alcolizzato, di un mondo dal quale ha cercato di allontanarsi per diventare diversa, per costruire una famiglia diversa.
La scrittura delicata della De Vigan si addentra piano nella mente dei suoi protagonisti, li lascia parlare e lascia emergere il loro lato più profondo e nascosto.

martedì 11 settembre 2018

Karl Kraus


Karl Kraus è noto soprattutto per i suoi aforismi e corre il rischio di venirne travolto. Pochi infatti hanno letto il suo dramma "Gli ultimi giorni dell'umanità" e le sue poesie. Karl Kraus è stato però soprattutto un giornalista e un critico, oltre che un grande studioso di Shakespeare.
"In questa nostra grande epoca" è il discorso che tenne nel novembre del 1914, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Come negli aforismi, la voce di Karl Kraus è caustica e lontana dalle opinioni condivise più comuni. Una voce stridente e fortemente in contrasto con tutti i dogmi della sua epoca. La sua critica è forte soprattutto nei confronti degli scrittori (come Hauptmann e Thomas Mann) e dei giornalisti (come Benedikt). È la critica ad una stampa "unica" , che vuole presentare un solo lato della medaglia. Sono però anche pagine che si leggono con grande divertimento per la forte ironia dell'autore e perché è impossibile non notare la sbalorditiva analogia di quella sua grande epoca con questa nostra.

giovedì 30 agosto 2018

La solitudine dell'assassino

Luca Rainer è un traduttore, uno con cui le donne resistono al massimo qualche mese, che si dimentica di cambiarsi i vestiti, che si rifugia nella non-vita e nel rancore verso una madre che l'ha messo al mondo e poi abbandonato.
Carlo Malaguti invece è un assassino, uno che ha vissuto la vita intensamente, come un fuoco che brucia, e che ha dentro una bestia che lo divora. Una bestia simile alla pantera della poesia di Rilke, che Luca ha tradotto. E allora vuole che sia Luca a raccontare la sua storia. Una storia cattiva, di amore, tradimento, gelosia. E, addentrandosi in questa storia, Luca scoprirà Carlo, ma anche se stesso.

Di Andrea Molesini, qualche anno fa, avevo letto "Non tutti i bastardi sono di Vienna" e mi aspettavo un romanzo simile. Mi sono invece stupita della differenza tra i due libri, che sembrano quasi scritti da persone diverse. Perché il primo è un romanzo storico, mentre il secondo un thriller psicologico, che a poco a poco svela i protagonisti. Eppure entrambi i libri mi sono piaciuti e mi hanno trascinato nel gorgo degli eventi. Ho avuto inoltre la fortuna di essere stata a Trieste pochi mesi fa e di avere ancora ben chiaro il ricordo dell'atmosfera di questa bella città, elegante e malinconica, una città che non dimentica il suo passato e che è lo sfondo perfetto di questa vicenda.

giovedì 23 agosto 2018

Le menzogne della notte

Nel 1988 Gesualdo Bufalino vinceva il premio Strega. Era l'estate in cui io non riuscivo a staccarmi da Schiller e pochi mesi dopo avrei incontrato Heine e la Woolf e Max Frisch. Ci sono voluti quindi trent'anni e il suggerimento di un'amica, prima che scoprissi questo libro. Eppure è un po' come se tutte le letture di questi anni mi abbiano portato qui, a questo romanzo breve ma maestoso, che parte dal Decamerone, per raccontare l'ultima notte di un gruppo di condannati a morte, in un penitenziario su un'isola. Un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, che forse si trova nel Regno delle Due Sicilie, in epoca borbonica. "Fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria".
Un romanzo che parte da Balzac, con una sfida al lettore ("A noi due") o forse un brindisi, raccontato con uno stile antico, che riporta ad "uno stravolto Risorgimento" e, al tempo stesso, richiama l'atmosfera dei Vicerè di De Roberto. Ma è un romanzo che fa pensare anche allo Stiller di Max Frisch, alla frantumazione dell'identità, all'inutile ricerca dell'io, alla dicotomia tra essere e apparire, alla difficoltà di accettarsi. 
"Poiché la mia vita - non meno che la vostra, o miei nemici e fratelli - non è stata che un fluido scorrere di coscienze posticce dentro un innumerevole ME..."

giovedì 16 agosto 2018

La sera a Roma - Enrico Vanzina

Questo libro l'ho preso a casa di mia madre. A lei era piaciuto abbastanza, ma non l'aveva fatta impazzire. L'avevo appoggiato sul comodino, ad alimentare la pila di libri da leggere.
Poi è morto Carlo Vanzina e ho rivisto "Via Montenapoleone", un film che avevo visto al cinema a sedici anni, un sabato pomeriggio, con un'amica. Ci ho ritrovato gli anni Ottanta, la mia città com'era allora e anche qualcosa di me. L'ho guardato con un misto di divertimento, nostalgia e rabbia: eravamo come ci hanno descritto i Vanzina, non c'è da stupirsi che siamo quelli che siamo.
Così ho messo il libro in valigia. Il titolo evoca le serate d'estate in cui si passa più tempo all'aperto e mi aspettavo, chissà perché, un'autobiografia. Ho trovato invece un mistero, un noir più che un giallo, ma soprattutto ho trovato quel romanzo su Roma che Federico, il protagonista, vorrebbe scrivere. Un romanzo su una città troppo bella, sospesa tra il vecchio e il nuovo, una città in cui si mescolano la vecchia nobiltà, con i suoi giochi e le sue vendette, le istruttrici sudamericane di pilates, ambigui uomini d'affari. Una città in cui tutti inseguono quello che non hanno, per poi rimpiangere quello che hanno lasciato andare senza accorgersene.
È un ritratto dell'Italia, apparentemente leggero ma piuttosto impietoso, scritto molto bene, con uno stile elegante, che si vorrebbe non finisse mai.

mercoledì 6 giugno 2018

Estate

Oggi ho voglia di parlare di estate. So che, tecnicamente, non è ancora iniziata, e quindi ci sta che a Milano faccia ancora freddo e che, alzando la tapparella, non mi trovi davanti il sole caldo che aspettavo, ma un'altra giornata nuvolosa. Eppure per me l'estate non è mai iniziata il 21 giugno. Per me l'estate inizia alla metà di maggio, quando non sopporto più i vestiti scuri e invernali, le scarpe pesanti. Quando ho voglia di serate all'aperto, di cene fuori, in cui ogni tanto arriva qualche pezzo di conversazione dei bambini del piano di sotto e sorridiamo, ripensando ad altre conversazioni, ad altre estati. 
Forse perché si passa più tempo fuori, l'estate è una stagione intensa, una stagione in cui spesso, quando finisce, ci si ritrova un po' diversi. Credo che per tutti ci sia stata qualche estate in cui abbiamo perso qualcosa di noi. Dopo siamo cresciuti, diventando sempre più simili alle persone che siamo oggi, ma dentro è rimasta una vaga nostalgia per tutto quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
E allora mi viene in mente una poesia di Fernanda Pivano che credo esprima proprio questo senso di nostalgia. In fondo anche lei se ne andò in un giorno d'estate, la notizia della sua morte mi raggiunse su una spiaggia di Maiorca.

MORTE DI UNA STAGIONE
Piovve tutta la notte
Sulle memorie dell'estate.
Al buio uscimmo
Entro un tuonare lugubre di pietre
Fermi sull'argine reggemmo lanterne
A esplorare il pericolo dei ponti.
All'alba vedemmo le rondini
Sui fili fradici immote
Spiare cenni arcani di partenza
E le specchiavamo sulla terra
Le fontane dai volti disfatti. 


martedì 15 maggio 2018

Il teatro di Sabbath

"A volte ho in mente un lettore anti-Roth. 'Quanto odierà questa cosa,' penso. Ed è tutto l'incoraggiamento di cui ho bisogno".

Ho pensato molto a queste parole mentre leggevo. Ci ho pensato soprattutto quando Sabbath frugava nei cassetti della biancheria della moglie e della figlia del suo migliore amico; ci ho pensato mentre, nel mezzo di Manhattan, sbottonava la camicetta a una ragazza per palparle il seno; ci ho pensato mentre profanava la tomba di Drenka, l'amante defunta. "Nei capolavori tutti vogliono sempre suicidarsi quando commettono adulterio. Lui voleva suicidarsi quando non poteva commetterlo". 
Ma io non appartengo a quei lettori che incoraggiano Roth, perché a me Sabbath piace moltissimo. Soprattutto mi piace che  questo romanzo sia stato scritto nel 1995, una vita fa, un mondo fa, ma che da quel mondo Roth sia riuscito a parlare così bene del nostro mondo, delle nostre ipocrisie, delle nostre pietre, messe sopra tutto quello che non vogliamo vedere. "I tuoi amici hanno una registrazione della mia voce che rende reali tutte le cose peggiori che vogliono che il mondo sappia sugli uomini".
Perché Sabbath non è il peggio, come lui stesso scopre con delusione e disappunto, quando va a trovare la sua seconda moglie in una clinica psichiatrica. Il peggio è qualcosa di più profondo, qualcosa che sta sotto quelle facciate perbene, sotto la maschera di un professore dallo sguardo severo. Il peggio sta in quei matrimoni perfetti, tra persone di successo, che si detestano e che sognano di andarsene. "Poi hanno sessant'anni, sessantacinque, settanta, e che differenza fa, ormai? Se ne andranno, certo. Per alcune persone questa è la cosa migliore da dire sulla morte: finalmente fuori dal matrimonio. E senza doversi rifugiare in un hotel. Senza dover vivere quelle miserabili domeniche da soli in un hotel. Sono le domeniche a tenere insieme queste coppie. Come se niente fosse peggiore delle domeniche da soli."
"Il teatro di Sabbath" è soprattutto un libro sulla solitudine, il protagonista è infatti "nel periodo di maggior solitudine della sua vita", quello in cui a volte pensa al suicidio, ma poi "capita sempre qualcosa che ti costringe ad andare avanti a vivere". E' la solitudine di chi rimane, circondato dai fantasmi di quelli che se ne sono andati, prima di tutti la madre, una madre adesso onnipresente, che guarda, giudica e dà consigli. Quella stessa madre che in realtà è morta molto tempo prima, insieme al figlio maggiore Morty ("Ma lui non è morto perché era ebreo. È morto perché era americano. L'hanno ucciso perché era nato in America"). Le pagine sui genitori e su Morty, il fratello maggiore, il modello che Sabbath si sforza invano di sostituire, sono le più belle. Sono queste infatti le pagine in cui emerge il suo lato più umano e più fragile: il dispiacere per la morte del fratello, i tentativi di essere come lui, di riuscire a sostituirlo, la consapevolezza di non poterlo fare. E poi la disgregazione della famiglia, la perdita dei genitori quando ancora sono vivi, l'incapacità di dare vita lui stesso a una famiglia ("mai benedetto da figli"). Non con Nikki, la prima moglie, la bellissima greca che veste sempre in bianco e nero, l'attrice "di cui non si sa più nulla" (sì, tra le pagine di questo romanzo Shakespeare sbuca di continuo), cercata e aspettata inutilmente. Non con Roseanna, la moglie che Sabbath tradisce e con cui ha tradito Nikki. Ma nella vita di Sabbath, ad un certo punto, è arrivata Drenka, il suo alter ego, l'immigrata croata, che come lui è sposata e ha altri amanti, eppure è sempre felice di condividere e mettere in pratica le sue fantasie. E quando si parla della presunta misoginia di Roth bisognerebbe pensare soprattutto a Drenka, personaggio femminile con gli stessi difetti e le stesse qualità di quelli maschili. E forse anche questo dà parecchio fastidio al lettore anti-Roth. 

martedì 3 aprile 2018

Max Frisch

Il 4 aprile 1991 moriva Max Frisch, forse il più grande scrittore di lingua tedesca del secondo dopoguerra. Un autore che, come notò Dürrenmatt, fece di se stesso il "caso da risolvere". La sua vita è infatti strettamente intrecciata alle sue opere, vi si specchia, si interrompe, si ricompone, in un'eterna ricerca (e al  tempo stesso rifiuto) della propria identità.  I suoi diari sono la parte più importante e più consistente della sua opera, sono intesi come una raccolta di materiale, di annotazioni, di frammenti. I diari sono il suo cantiere, che ripropone nei romanzi più importanti: "Homo Faber", "Stiller", "Il mio  nome sia Gantenbein", "Montauk".  Il suo è un gioco volto a spiazzare il lettore, a costringerlo ad una lettura attiva, a confondere le carte, a ricomporle in un'altra forma. E ogni tanto, tra le pagine, sembra di scorgere il sorriso a metà dell'autore, con la pipa ad un angolo della bocca, come nella maggior parte delle foto che lo ritraggono, in diverse età, ma sempre con la stessa espressione ironica, perché attraverso la letteratura si può addirittura "diventare di nuovo giovani. Un poco più giovani".

martedì 27 marzo 2018

Irène Némirovsky


Era il 2010 ed ero con mia sorella nella nostra libreria preferita, la Mondadori di corso Vittorio Emanuele, le ex Messaggerie Musicali, adesso Mango, quando lei ha sorriso in direzione di uno scaffale e ha preso un libro con la copertina marrone: si intitolava "I cani e i lupi".
- Un altro libro della Némirovsky! - ha esclamato felice.
- Chi è? - ho chiesto. Il nome ostrogoteggiante non mi diceva niente, se non che forse quell'autore era russo, ma io, che pure di autori russi ne conosco parecchi, non ne avevo mai sentito parlare.
- Irène Némirovsky, - ha detto lei mostrandomi il nome sulla copertina. - Mi piace tantissimo.
Sarà, ho pensato mentre la accompagnavo alla cassa a pagare.
Ci è voluto qualche mese e la lettura della quarta di copertina di alcuni libri, prima che mi venisse la curiosità di leggere quella strana scrittrice, di cui non avevo mai sentito parlare ma che era morta nel 1942, quando l'olocausto compì un doppio crimine: verso di lei e la sua povera vita ancora giovane, e verso di noi, per averci privato delle sue opere.
Per fortuna, però, prima di morire ad Auschwitz, la Némirovsy fece in tempo a scrivere molti romanzi e racconti e io iniziai leggendo "Il calore del sangue".
Il libro era piccolo, un formato comodissimo da portare nella borsa e leggere sulla metropolitana nel tragitto verso l'ufficio. Lo lessi in un giorno e mezzo, senza quasi riuscire a staccarmi e facendolo malvolentieri, quando proprio non potevo evitare. Lo trovai bellissimo, una storia appassionante e scritta in modo avvincente. Leggevo e per il resto del tempo mi ripetevo le frasi che avevo letto, ripensavo alle scene del breve romanzo, soprattutto quella in cui il protagonista entra nella locanda e vede la propria immagine riflessa nello specchio. Una scena molto simile a quella di un racconto di Maupassant. Direi che c'è molto di Maupassant in questo breve romanzo, che forse è il romanzo più francese della Némirovsky. Ci sono libri che ci piacciono e ci sono libri di cui intuiamo la grandezza anche se non ci appassionano particolarmente. E poi ci sono libri che ci entrano dentro e con loro ci entrano dentro i loro autori. Perché forse, in realtà, questi libri erano già in noi, nascosti da qualche parte, e bastava soltanto che qualcuno ci aiutasse a trovarli. "Il calore del sangue" è un racconto delicato, eppure forte, di tutto quello che è sepolto dentro di noi. È il racconto di qualcosa che è successo molto tempo fa, quando eravamo persone diverse, quando il nostro sangue caldo ci ha fatto fare qualcosa che ora vorremmo non aver fatto. Qualcosa che abbiamo tentato di dimenticare e di nascondere e che invece è rimasto dentro di noi, perché in fondo è la nostra parte più vera e più autentica.
Per tutto il tempo della lettura, pensai a pochissime altre cose al di fuori del libro e, quando lo finii, provai un forte senso di malinconia, un po' per lo sviluppo della vicenda, un po' per la tristezza di averlo finito, un po' per il senso di amarezza che lascia il bellissimo finale, che arriva inaspettato. Ma mi restò la certezza che della Némirovsky avrei letto tutto.
Ho detto che "Il calore del sangue" è il più francese dei suoi romanzi, la Francia infatti è il paese in cui si stabilì con i genitori dopo la fuga dalla Russia, e il francese la lingua in cui scelse di scrivere i suoi libri. La complessità del rapporto con questo paese, che pure sentiva suo, ma che non era realmente suo, fa emergere il paradosso ebraico, che la collega ad Heine, a Kafka e allo stesso Roth. Il paradosso sintetizzato dalla battuta di Marcel Reich-Ranicki: "Sono tedesco al 50%, polacco al 50% e ebreo al 100%".
Il rapporto con la Francia è il cardine di "Suite francese", il romanzo che doveva essere il suo "Guerra e pace", concepito come un'opera monumentale e che restò purtroppo incompiuto, ritrovato anni dopo la sua morte, nella valigia che aveva affidato alle figlie, composto soltanto delle prime due parti, molto diverse tra loro e quasi slegate. Il labile filo che le unisce è la guerra, rappresentata attraverso un romanzo corale nella prima parte, quella  della fuga dei francesi dalle città, in cui la scrittrice osserva la loro frenesia, le loro paure, le vigliaccherie e i gesti di coraggio. E' qui che sente di appartenere e non appartenere al paese che ha scelto e che in qualche  modo sta iniziando a respingerla. La seconda parte è quella che invece ha ispirato il film ed è piuttosto curioso perché, dagli appunti della Némirovsky, l'amore tra Lucille e l'occupante tedesco Bruno avrebbe dovuto restare marginale sia per il romanzo che per la vita di Lucille stessa, destinata invece all'"amore vero" con Jean Marie.
Ma fa un certo effetto leggere queste pagine, conoscere la sua vita, e notare come la Némirovsky sia riuscita a spogliare i soldati tedeschi delle uniformi nemiche e a guardare i ragazzi, sradicati dalle loro case, allontanati dalle loro vite e mandati a combattere una guerra che forse non comprendevano. In queste pagine la Némirovsky ha visto quegli stessi ragazzi di cui, pochi anni più tardi, avrebbero parlato Böll e Lenz. Ha capito i soldati, gli uomini, ma non ha capito la guerra. O forse non ha voluto rendersi conto che lei, in quel paese, che ormai era il suo paese, era in pericolo in quanto straniera.
Oppure era restia a lasciare la Francia perché già una volta aveva dovuto lasciare il suo paese e il racconto della fuga, con un breve soggiorno in Finlandia, si trova ne "Il vino della solitudine", uno dei suoi romanzi più belli e più amari. Ma, nonostante si sentisse francese, non ruppe mai il legame con la letteratura russa, che, alla fine, restò la sua vera patria. I suoi libri, infatti, pur essendo scritti in francese, rivelano il legame strettissimo con i grandi scrittori russi. Soprattutto, in ogni sua pagina, traspare l'influenza di Cechov, di cui, con la Berberova, è l'ultima erede. Entrambe infatti, come Cechov, privilegiano la forma breve che, come per il grande autore, è quella più congeniale ai loro racconti, basati sull'ironia delicata e un po' amara con cui vengono guardati i personaggi e le loro vicende. Come nella raccolta di racconti "Domenica", in cui un'umanità un po' sfatta e senza più ideali, si lascia vivere tra le due guerre. In questi racconti è forte il contrasto tra la rassegnazione dei personaggi, il loro senso di sconfitta, e una scrittura pulita e precisa.
A Cechov la Némirovsky dedicò un saggio che può essere visto forse come un omaggio o una dichiarazione d'amore assoluto. È una biografia romanzata da cui Cechov esce come un uomo mite e semplice, umile e di buon carattere. Un medico attento, anche se tormentato dalla propria salute cagionevole. È una vita semplice, quella che si delinea in questo saggio, al punto che viene da chiedersi come abbia avuto modo di conoscere così bene le sfumature dei rapporti umani, lui, uno che se ne intendeva di mogli e di amanti, ma che si sposò soltanto alla fine. Forse restano fuori da questo saggio proprio le pagine in cui il "calore del sangue" ha preso il sopravvento, quelle pagine della vita dello scrittore che non conosceremo mai.
Quello che invece resta unico e centrale nell'opera della Némirovsky è la figura della madre. Una madre, la sua, egoista e presa da se stessa e dalla propria bellezza, ossessionata dal passare del tempo e che, proprio per questo, vedeva nella figlia una nemica, una minaccia, un promemoria vivente della sua età. Una madre che tentò quindi il più possibile di respingerla nell'infanzia, per nascondere al mondo la prova del suo inevitabile invecchiamento.
“Non ho paura della vita. Sono soltanto gli anni di apprendistato. Sono stati eccezionalmente duri, ma hanno temprato il mio coraggio e il mio orgoglio. Tutto questo è mio, è la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante”.
Nelle parole di Hélène ne "Il vino della solitudine" è facile ritrovare l'autrice e il suo rapporto difficile con una madre che non seppe amarla. Così come è facile ritrovare il rapporto complicato, fatto di cattiverie e dispetti, ne "Il ballo", breve romanzo, o racconto lungo, storia della perfidia di un rapporto irrisolto. "Il ballo" è una delle opere più famose della Némirovsky e forse quella che meglio la rappresenta e che meglio aiuta a comprendere le sfumature di questo rapporto complicato. Sfumature che sono state colte interamente e con grande sensibilità da Sonia Bergamasco nello spettacolo teatrale che ne ha tratto.
È però forse "Jezabel" il romanzo in cui più ferocemente viene attaccata la madre, quello che ne mostra in modo più crudo le bassezze, l'egoismo, l'ossessione per la propria bellezza e i tentativi patetici di contrastare il passare del tempo. Ma anche la tristezza della solitudine, l'aridità di una vita che non ha saputo andare oltre se stessa, che non ha saputo amare altro che se stessa. 
“Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora, di un’estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una gemma.”
Un regolamento di conti? O forse uno spunto per un romanzo di straordinaria modernità, molto attuale ancora oggi? 
Un romanzo che Fanny, la madre, conserverà chiuso nella cassaforte fino alla morte, insieme ad altri scritti della figlia. Di Fanny parlerà ancora Élisabeth Gilles, la figlia di Iréne, per raccontare il momento terribile in cui, al termine della guerra, venne accompagnata con la sorella Denise a casa della nonna. "Io non ho nipoti", rispose la donna senza lasciarle entrare, aggiungendo che c'erano i sanatori per i bambini poveri malati di pleurite come Denise.
Mirador è il romanzo scritto da Élisabeth, la figlia di Irène, con l'aiuto della sorella Denise, la quale, in "Sopravvivere e vivere" racconta il lavoro di ricerca intrapreso sulle tracce di una madre che non avevano avuto il tempo di conoscere. Un lavoro che portò anche le due sorelle a frequentarsi, conoscersi, riscoprire un rapporto interrotto. Perché quella famiglia felice, che appare nelle foto, venne distrutta  un giorno dall'arrivo dei gendarmi che portarono via la madre.
"Siamo ridiscese dopo qualche minuto per salutare la mamma che partiva per un viaggio... Ci siamo tenuti tutti per mano per rispettare la vecchia usanza russa di restare un minuto in silenzio quando qualcuno lascia i familiari per partire da solo... Non ci sono state lacrime... appena qualche parola per raccomandarci di comportarci bene. Non sapevo che sarebbe stato un viaggio senza ritorno."
Probabilmente nemmeno la madre, Irène Némirovsky, lo sapeva, visto che poco tempo dopo scriveva al marito che non pensava sarebbe stata una faccenda lunga. Entrambe le figlie sembrano rimproverarle questa fiducia nel fatto che non sarebbe successo niente, il suo sentirsi al riparo in quello che, pochi anni prima, aveva definito "il paese più bello del mondo". Dalla gendarmeria di Toulon-sur-Arroux infatti faceva sapere di sentirsi calma e forte. Sono strazianti i racconti delle figlie, delle loro attese alla stazione, guardando quei treni dai quali i loro genitori non sarebbero mai scesi.
Ma quando ripenso a questi rapporti interrotti, o quando vedo le foto di Irène al mare che gioca con le figlie, mi viene in mente il suo primo romanzo, "Il malinteso", quello che, dopo "Il calore del sangue", considero il migliore. La protagonista si chiama infatti Denise, il nome che Irène sceglierà per sua figlia, tre anni dopo la pubblicazione del romanzo. È poi questo l'unico suo romanzo con una madre positiva, una madre ancora giovane e bella, ma che cerca di trasmettere alla figlia ciò che ha imparato dalla vita. Quello in cui l'influenza di Cechov è forse più forte nella descrizione degli equivoci che muovono le azioni dei personaggi, in cui il suo sguardo è più sferzante e ironico, e più forte il botto con cui le illusioni e i sogni dei protagonisti si infrangono contro la realtà.
Se "Il malinteso" fu il primo romanzo della Némirovsky, "David Golder" fu invece quello che le diede il successo, la prima pubblicazione. Pare infatti che l'editore Grasset, dopo aver letto il manoscritto, mise un'inserzione su un giornale per rintracciare l'autore e, quando si ritrovò davanti una donna, giovane ed elegante, restò perplesso, dapprima, non volle credere che, proprio lei, avesse scritto un romanzo tanto crudele e spietato. È infatti la storia della vita arida di un ricco banchiere ebreo, della sua corsa verso una ricchezza con la quale credeva di poter comprare qualsiasi cosa, inclusi l'affetto e l'amore di una famiglia. È facile riconoscere, nel banchiere ebreo, il padre di Irène e, nella moglie arrivista e infedele, la solita Fanny. Mentre leggevo, però, a distanza di una ventina d'anni, mi è sembrato di rivedere l'immagine, ormai sbiadita, del "Foma Gordeev" di Gorki. Sono molte infatti le similitudini tra le parabole dei due protagonisti, le loro solitudini, le loro sconfitte. Un altro regolamento di conti? La letteratura russa che, ancora, torna? 
Indubbiamente "David Golder" contribuì ad alimentare il sospetto di antisemitismo che ogni tanto affiora intorno alla figura della Némirovsky, anche se credo che si debba dare ragione alla figlia Denise: leggiamo "David Golder" con il senno di poi, del dopo olocausto, senza contestualizzarlo: "più che una manifestazione di antisemitismo, una critica sociale dell'ambiente che aveva conosciuto e odiato".
In fondo non è molto diverso da quando un esterrefatto Philip Roth si vide accusare di antisemitismo all'uscita di "Goodbye Columbus". E non molto lontano dalle tematiche di Phillip Roth e della letteratura contemporanea è soprattutto "Il signore delle anime", uno dei romanzi più belli della Némirovsky, con uno tra i personaggi più complessi e controversi, il levantino Dario Asfar, un ciarlatano che riuscirà a farsi strada nel mondo, ma che non riuscirà a sfuggire a se stesso e alla sua natura. "Io credo che esista una fatalità, una maledizione. Credo che il mio destino era di essere un mascalzone, un ciarlatano ... Non si sfugge al proprio destino."
Proprio "Il signore delle anime" venne pubblicato a puntate sulla rivista Gringoire. Rivista che era fortemente schierata da una certa parte politica, il che porta a volte a rafforzare quell'idea di antisemitismo della Némirovsky, di odio verso se stessa e le proprie origini. È però vero che le riviste letterarie del tempo, come Comoedia, Candide e Nouvelles littéraires, avevano un po' tutte lo stesso atteggiamento e, accanto alla politica, pubblicavano racconti di altri grandi autori, tra cui uno scrittore ebreo le cui opere, come quelle della Némirovsky, sono state cancellate dalla furia nazista ma sono tornate a vivere, molti anni dopo  la sua morte, grazie alla loro straordinaria modernità: Stefan Zweig.
Tra il 2010 e il 2013 ho letto tutti i libri della Némirovsky, divorandoli in modo bulimico, appena mi capitavano tra le mani, in francese o tradotti in italiano. Adesso, dopo averli ripresi, dopo averne rilette alcune parti, credo che avrei dovuto diluirli nel tempo, lasciarne qualcuno per gli anni a venire. Solo adesso infatti mi rendo conto di quanto sia complessa e articolata la sua opera, che intreccia la letteratura classica russa con quella contemporanea occidentale. Ci sarebbero molti altri romanzi di cui parlare, che offrirebbero nuovi spunti di discussione. Soprattutto meriterebbe maggiore spazio "Due", il romanzo che mette in scena il dramma del matrimonio, quello che la figlia Élisabeth racconta di aver letto avidamente e di nascosto. Il romanzo nel quale Liliane Studer, in uno dei tanti articoli che dedicò alla Némirovsky sulla Faz, vide il matrimonio come una metafora della guerra, il campo di battaglia di una generazione, quella tra le due guerre, che aveva perso ogni ideale, ma anche la capacità di instaurare delle relazioni autentiche e durature. Un romanzo all'apparenza banale, come apparentemente banale è la quotidianità borghese, la facciata dietro la quale si sgretolano le illusioni e si consumano i drammi peggiori.