giovedì 25 dicembre 2008

Harold Pinter

Ho appreso la notizia per caso, dalla televisione accesa, nell'unica mezz'ora trascorsa in casa di questa giornata pigra, identica a tutti i Natali che l'hanno preceduta e che la seguiranno.
Harold Pinter è morto ieri. Sono rimasta sorpresa e subito dopo mi sono intristita, come se fosse morto un amico e forse un po' lui lo è stato, visto che le sue opere, lette o viste al teatro, mi hanno tenuto compagnia per molto tempo. E poi era bello sapere che era ancora vivo, uno dei pochi rappresentanti del Teatro dell'Assurdo ancora viventi, una sorta di ponte tra il mondo di oggi e quello di Beckett.
Qualche anno fa ho visto Vecchi tempi al Teatro Piccolo, con mia madre e mia sorella, recitato da Greta Scacchi. E' stato bellissimo e coinvolgente, persino il fatto che fosse così breve ne accresceva il fascino, perpetrando la malinconia e la nostalgia per quanto avevamo appena visto. Ho letto sul giornale che la sera successiva Pinter, in visita a Milano, era stato al teatro ad assistere a quello stesso spettacolo: era bello pensare che un autore del suo calibro fosse ancora vivo e potesse andare a teatro a vedere la rappresentazione delle proprie opere.
Pochi mesi dopo, sempre al Piccolo, ho visto anche Tradimenti, un po' più lungo e forse ancora più spietato, apparentemente meno malinconico ma altrettanto capace di mettere in luce aspetti dei personaggi e dei loro sentimenti che sarebbero altrimenti rimasti appena sotto la superficie, invisibili e insondati.
Secondo me la grandezza di Pinter era proprio questa, la capacità di portare in superficie determinati aspetti del carattere e della vita dei suoi personaggi, destinati invece a restare per sempre sepolti nell'ombra delle loro menti.
Nel 2005, quando ha vinto il premio Nobel, sono rimasta perplessa e mi sono chiesta perché. Non perché gli avessero dato il Nobel, naturalmente, ma perché non gliel'avessero dato prima, negli anni d'oro in cui aveva scritto e messo in scena le sue opere più belle. Mi sembrava assurdo che glielo dessero in quel momento, quando gran parte dei ragazzi di oggi non sa chi sia Harold Pinter, perché non ha letto (e probabilmente non leggerà) né The RoomThe Dumb Waiter. Oggi sono felice che in qualche modo tre anni fa si sia posto rimedio a questa dimenticanza e che non sia stato troppo tardi, dopo tutto.

domenica 21 dicembre 2008

Facebook

C'è chi lo odia (come il cmu) e chi lo ama (come me). Fatto sta che comunque Facebook è un fenomeno sociale, forse il vero fenomeno di quest'anno, in cui la crisi finanziaria ci sta intristendo. Su Facebook le cose invece cambiano, si possono lasciar perdere i propri problemi e quelli del mondo per il tempo di un collegamento, si possono rintracciare amici persi, magari senza sapere nemmeno il perché, forse solo perché perdersi fa parte della vita, dell'avere vite diverse, che portano in direzioni e luoghi diversi. O forse ci si è persi perché ci si era voluti perdere, perché non si andava più d'accordo e non ci si sopportava più, ma a distanza di tanti anni è bello ritrovarsi, aver dimenticato i motivi di litigio e ritrovare la gioia delle cose che si sono fatte e vissute insieme. Si possono leggere gli aggiornamenti, vedere gli album fotografici, ripensare a quando si era giovani, provare nostalgia e subito dopo essere felici che il tempo, dopotutto, sia passato bene. Su Facebook si ha comunque l'impressione di non perdersi più.
E' bello anche trovare gli amici di adesso, quelli che si sentono tutti i giorni al telefono o per email, quelli con cui si esce e si parla sempre, quelli che non si sono persi, ma che si ritrovano comunque in una dimensione diversa.
Una cosa bella di Facebook sono anche i forum. Ce ne sono di tutti i tipi ma ce ne sono soprattutto molti che parlano di libri e sono molto attivi e frequentati. Così si scopre che persone che non si conoscono e che non si sa dove vivano, amano gli stessi libri e gli stessi scrittori che amiamo noi, che leggendoli hanno provato le stesse emozioni e gli stessi sentimenti che abbiamo provato noi. Sono sconosciuti ma è bello poter parlare e scambiare pensieri con altre persone, forse proprio per il fatto che sono sconosciuti e che le nostre vite non si sono mai incrociate, se non su Facebook.

lunedì 27 ottobre 2008

Eluana

Non avevo pensato di parlare di questo nel blog, perché non ritengo sia un argomento da blog, è una cosa troppo importante e troppo privata, come sempre sono importanti e private le tragedie di una famiglia. Eppure, mentre cenavo da sola e guardavo L'infedele, qualcosa dentro di me ha iniziato ad indignarsi e ad urlare, perché era difficile stare a vedere quel padre composto ed educato che viveva il suo dramma, che cercava di essere capito e non riusciva, mentre altri, estranei, gli dicevano quello che avrebbe dovuto fare, come avrebbe dovuto vivere quel dramma che loro non conoscono, non hanno la più pallida idea di cosa sia, perché è solo suo.
La cosa che più mi ha lasciato un forte senso di amarezza della trasmissione è stata quella paura, quella fretta da parte di tutti di sottolineare come nessuno si sognasse di mettere in dubbio il fatto che la vita vegetativa di Eluana non possa esser considerata degna di essere vissuta. A tratti sembrava quasi che quelle persone considerassero la vita di Eluana addirittura bella, quasi invidiabile. Ma perché tanti problemi a dire che una vita ridotta ad uno stato vegetativo è uno schifo, che nessuna persona sana di mente potrebbe cosiderarla degna di essere vissuta? Chi potrebbe ritenere vivibile una vita in tutto simile a quella del mio gelsomino? Chi potrebbe augurarsela o augurarla alle persone che ama?
C'è stato un periodo, quando ero molto giovane, in cui anch'io credevo che finché c'è vita c'è speranza e aborrivo l'idea dell'eutanasia (che comunque non sarebbe il caso di Eluana). Poi, quando mia nonna si è ammalata di cancro ed è rimasta a letto due anni senza nemmeno la forza di alzare le palpebre, ho capito che la vita qualche volta se ne va prima e non c'è più posto per la speranza. Ho capito che per me non avrei voluto questo, che quando la vita se ne andrà dal mio corpo vorrei poter morire anch'io.
Mi chiedo allora perché quelle persone, che si sono truccate e agghindate per partecipare alla trasmissione, che poco dopo saranno tornate a casa e si saranno spogliate e lavate autonomamente, avranno riso, parlato e magari litigato con i loro familiari, perché si ostinavano a non capire? Perché ritengono che una ragazza, che è stata bella, vivace, viva, che ha riso, camminato e corso sulle proprie gambe, dovrebbe essere felice di esser ridotta ad un vegetale, nutrita tramite una cannetta, portata in giro su una sedia a rotelle dove non riesce a stare seduta?
Forse perché l'unica persona che l'ha amata è quel padre, che stasera sarà tornato a casa ancora più triste, ancora più amareggiato per non esser stato capito, perché il suo urlo di lasciar fare alla natura il suo corso non è stato ascoltato nemmeno questa volta. Un padre a cui è capitata la disgrazia terribile di vedere sua figlia morta ogni giorno e di non poterla piangere morta. Credo che solo lui conosca quel dramma e che qualsiasi sua decisione sul destino di Eluana debba essere accettata e accompagnata da un comprensivo silenzio.

venerdì 10 ottobre 2008

La solitudine dei numeri primi

Ho appena finito di leggere La solitudine dei numeri primi. Qualche mese fa gli avevo dato un'occhiata da sopra la spalla della persona che, accanto a me, lo leggeva in metropolitana e ne ero rimasta incuriosita, poi qualcuno me ne ha parlato bene e qualcuno invece me ne ha parlato malissimo, addirittura con fastidio e, forse, un po' di disgusto.
Io l'ho quasi divorato e devo dire che mi è piaciuto molto perché scritto bene, con uno stile veloce e scorrevole, non si può però evitare di provare un senso di fastidio perché si tratta pur sempre di un libro sgradevole, che parla di personaggi difficili e, perché no, in qualche modo menomati.
Alice è rimasta zoppa per via di un incidente in montagna di cui non riesce a smettere di incolpare il padre (che in realtà ha la colpa di averla voluta destinare a diventare campionessa di uno sport che non le piaceva) e reagisce al trauma della sua gamba rovinata per sempre diventando anoressica.
Mattia è ossessionato dal senso di colpa per aver abbandonato, da bambino, la sua gemella, Michela, una bambina ritardata. Questo senso di colpa, unito al suo genio per la matematica, lo allontana dai genitori e lo isola dal mondo.
Ci sono poi altri personaggi che fanno da sfondo, Denis, l'amico di Mattia, dapprima innamorato di lui, Viola, la ragazza più bella e più odiosa della scuola, che in realtà nasconde il grande vuoto di non essere realmente amata, Fabio, il marito di Alice, Nadia, la ragazza con cui Mattia trascorrerà una notte, il collega di Mattia all'università e la sua famiglia.
La solitudine dei numeri primi è un libro sull'incapacità di esprimere i sentimenti, sulla difficoltà di superare i traumi e riuscire ad abbattere la barriera di silenzio che separa i personaggi uno dall'altro. Alice e Mattia sono personaggi scomodi, che non si capiscono e che non vogliono farsi capire, per questo viene naturale solidarizzare con il marito di Alice, al punto di giustificare la sua crisi nervosa. Non si può non provare pietà per lui, ma il libro scorre veloce e le vicende di Alice e Mattia, due personaggi sentilmentalmente e socialmente menomati, sono avvincenti pur restando le vicende di due esseri un po' scoloriti e un po' incompiuti.

martedì 23 settembre 2008

La Didone

Ero stata alla Scala soltanto un'altra volta, secoli fa, in gita con la classe delle elementari. Non ricordo molto se non un gruppo di bambini un po' annoiati e un po' stupiti, umidicci per la pioggia. Mi regalarono un libro con la storia del teatro e con la spiegazione del nome, dovuto alla chiesa che prima sorgeva lì, Santa Maria alla Scala. Sfogliai molte volte quel libro, mi piacevano soprattutto i disegni e la piazza, dove ancora oggi mi piace arrivare e guardare la statua di Leonardo circondato dai "discepoli".
L'occasione di andare alla Scala con un biglietto superscontato, in un palco centrale, mi ha reso felicissima, nonostante io non capisca niente di opera.
La Scala è un teatro bellissimo, mi sembrava di ricordarla perfettamente ma credo che i miei ricordi non rissalissero a quella mattina di tanti anni fa, quanto piuttosto alle migliaia di volte in cui l'ho vista in televisione o sui giornali.
Entrare in un palco è come entrare in un film del settecento, quando nei palchi dei teatri pare si facesse di tutto fuorché assistere agli spettacoli. Beh, io invece volevo assistere allo spettacolo, anche se non sono un'appassionata di opera, perché un'occasione così non credo mi ricapiterà.
Le seggioline di velluto rosso non sono proprio comodissime ma sembrano rimaste le stesse da quando il teatro ha assistito al suo primo spettacolo e questo le rende più che comode: bellissime.
In contrasto con l'atmosfera e il gusto antico è solo il libretto elettronico, posizionato davanti alle seggioline, bilingue, che cambia schermata automaticamente. Lui sì, però, è molto comodo, perché in un'opera non sempre è facile comprendere le parole. E io che mi ero scaricata da internet il libretto di carta!
I costumi erano bellissimi e Didone gigantesca e imponente anche quando viene lasciata sola, mentre Enea, anche nell'opera, è sempre il solito mollaccione che perde la moglie per strada. Chissà perché questa cosa mi ha sempre dato sui nervi.
Il figlioletto Ascanio era in realtà una donna, piccola e agile.
La vecchietta nel nostro palco, accompagnata dalla figlia e probabilmente grande estimatrice dell'opera, era entusiasta e applaudiva fino a farsi male alle mani. Si è perfino scusata perché aveva il raffreddore e ogni tanto starnutiva. In realtà noi non avevamo sentito uno solo dei suoi starnuti e lentamente, dopo le prime due ore, quando abbiamo iniziato ad esaurire ogni angolo da guardare, abbiamo iniziato ad avvertire tutta la stanchezza del lunedì e anche quella della settimana appena iniziata, che si è unita al peso della nostra ignoranza assoluta in materia di opera.
La Scala, dicevo, è un teatro bellissimo, grandioso e antico, i cantanti sono perfetti, riescono a rendere l'essenza e la profondità dei personaggi, aiutati anche dai costumi fiabeschi. Ma per chi non capisce niente di opera, quattro ore sono veramente tante...

domenica 21 settembre 2008

Burn after reading

Avevo voglia di cinema e di un bel film, dopo tanto tempo in cui non ci andavo. Quello dei fratelli Coen ha soddisfatto pienamente il mio desiderio, come già potevo intuire leggendo i nomi dei protagonisti.
George Clooney è un attore che, pur non essendo classicamente bello, lo diventa ancora di più grazie a quell'aria di uno che non fa tante storie, uno che non se la tira pur essendo tra gli attori più famosi e pur essendo un sex symbol. George Clooney insomma mi è molto simpatico ed è riuscito ad esserlo pur nella parte di un agente imbranato, con una moglie e un'amante che si detestano ma che non sono tanto diverse una dall'altra. L'amante è Tilda Swinton, più odiosa che mai e anni luce lontana da Orlando, ingrassata che quasi scoppia e con i capelli tinti di un improbabile rosso.
Il marito tradito di Tilda Swinton, invece, è John Malkovic. John Malkovic è un mostro, lo si capiva benissimo fin da quando tentavano di propinarcelo come bello, eppure (anzi, forse proprio per questo) è perfetto nella parte di un ex agente della Cia che viene licenziato all'inizio del film e che perde il dischetto su cui ha registrato le sue insulse memorie.
Brad Pitt, che è classicamente bello, riesce a diventare classicamente odioso tanto è stupido il suo personaggio e, purtroppo, verosimile. Eh sì, perché guardandolo vengono in mente tutti i tipi così che si sono incontrati nella vita.
Anche Frances Mc Dormand è una che si potrebbe incontrre nella vita, una donna insoddisfatta di se stessa e pronta a rifarsi completamente con una serie di interventi di chirurgia plastica. Purtroppo, per realizzare il suo sogno di un corpo e una faccia nuovi, le mancano solo i soldi. Da qui, dalla sua pelle cadente, nasce la catena di eventi che porta allo svolgimento di un film il cui maggior pregio è quello di riuscire a farci ridere della stupidità dellla gente, che a volte riesce a farci arrabbiare così tanto.

venerdì 19 settembre 2008

Ibiza

"Ibiza???" avevo chiesto un po' perplessa e un po' inorridita a metà maggio, davanti alla proposta del cmu (alias convivente more uxorio).
No, l'idea di passare le vacanze ad Ibiza non mi andava proprio a genio, c'eravamo stati nove anni fa, solo per una serata, quando eravamo in vacanza a Formentera, e allora avevo detto: "Mai una vacanza ad Ibiza".
Non che non mi fosse piaciuta, eravamo arrivati verso le sei del pomeriggio e avevamo fatto un giro a Dalt Vila, la città antica, con il castello: bellissima. Poi avevamo cenato in un buon ristorante, carino ma molto più caro rispetto a quelli dell'allora più economica Formentera, e nel giro di poche ore la città si era trasformata in un immenso carnevale. Erano tutti molto allegri e molto travestiti, nonostante fosse una serata qualsiasi, sembrava che tutti si sentissero in dovere di divertirsi strafacendo, in un modo o nell'altro. Anch'io mi ero divertita, senza strafare, anzi, senza fare niente, soltanto guardandoli, ma poi ero stata contenta di tornare alla calma e alla tranquillità di Formentera: non avrei retto un'altra serata ad Ibiza. Per me le vacanze sono fatte di lunghe giornate da trascorrere in spiaggia, con tanto mare, tanto sole, abbondanti dormite.
Per questo avrei preferito una meta più "abbordabile", tipo Rodi. Ma per Rodi non c'erano voli oppure c'erano ad orari impossibili e così mi sono fatta convincere ad andare ad Ibiza. Il cmu ha detto che l'altra volta avevamo visto solo il lato più evidente e chiassoso, non avevamo visto le spiagge e il lato nascosto e riservato dell'isola. Ho pensato a Serepta Mason di Spoon River e al lato in fiore. Ho pensato che tutto sommato non ci vuole poi molto ad andare a letto presto e, vista la vicinanza, il mare doveva essere molto simile a quello di Formentera e di Minorca.
Sarà che sono arrivata ad Ibiza con una voglia estrema di vacanze, dopo un anno lungo e grigio, ma appena sono scesa dall'aereo e ho sentito il sole sulla pelle e il vento lieve mi è venuta subito voglia di mettere il costume e correre in spiaggia.
Invece no, abbiamo dovuto rimandare la spiaggia alla mattina dopo perché prima dovevamo ritirare la macchina e poi andare a cercare il nostro albergo. Impresa tutt'altro che semplice, visto che avevamo prenotato un albergo vicino a Sant Antonio, proprio perché memori della confusione di Eivissa. Purtroppo gli isolani non amano le indicazioni stradali, ne mettono una, ti dicono di andare da una parte, ma poi ti abbandonano e al primo bivio ti ritrovi smarrito a tirare una monetina per scegliere la direzione. Quasi sempre la monetina sbaglia e qualche chilometro più in là ti accorgi che invece la direzione giusta era l'altra.
Siamo passati quattro o cinque volte davanti ad un supermercato che si chiamava Suma e poi abbiamo proseguito sulla strada principale, oppure abbiamo tagliato per le viette laterali, dicendoci che l'albergo doveva essere per forza lì. Al quarto o quinto tentativo, quando ancora non c'era traccia dell'Hotel Costa Sur, ci siamo arresi e abbiamo vinto ogni freno inibitorio decidendo di entrare all'Hotel Barcelò (dove invece continuavamo inevitabilmente ad approdare) per chiedere indicazioni. La receptionist dell'Hotel Barcelò era gentilissima e sorridendo mi ha spiegato la strada, con tanto di disegno, indicandomi il quadrato che stava al posto del supermercato Suma. Perfetto: il nostro albergo era proprio lì vicino, nell'unica via in cui non avevamo provato ad entrare perché a senso unico.
Dopo aver cercato inutilmente parcheggio vicino all'albergo e dopo aver parcheggiato a due isolati di distanza, siamo entrati nella hall trascinando le valigie e sognando solo una camera confortevole e una bella doccia.
La ragazza alla reception ha corrugato la fronte guardando la nostra prenotazione e ha trafficato con il pc, mentre le si affiancava una donna più anziana, ugualmente corrugata.
"Bueno, bueno!" hanno poi detto sorridendoci soddisfatte e anche noi abbiamo sorriso tirando un sospiro di sollievo.
La donna anziana è uscita da dietro il bancone e ci ha fatto strada, indicando l'edificio di fronte e spiegandoci che il nostro albergo era quello e che era molto meglio. Perplessi, abbiamo attraversato la strada e abbiamo trascinato le valigie fino alla reception dell'hotel di fronte, mentre una nuvola iniziava ad affacciarsi sul cielo limpido della mia vacanza. Il temporale mi è esploso dentro quando ho visto la reception triste e squallida dell'albergo che doveva essere meglio e quando la receptionist ci ha detto che aveva posto solo per una notte. E poi? Dove avremmo passato le altre tredici notti? Se al Costa Sur non avevano posto, perché non ce l'avevano detto? Ho fatto tutte queste domande concitatamente, in italiano, alla receptionist che mi guardava dispiaciuta e in spagnolo mi spiegava che da domani mattina saremmo tornati al Costa Sur e che non eravamo i soli a cui era capitato. In quel momento non riuscivo proprio ad essere così altruista, degli altri non me ne importava niente, pensavo solo alla mia tanto attesa vacanza e al fatto che non sapevo dove avremmo dormito in quelle tredici notti.
Il cmu è tornato al Costa Sur (questa volta senza bagagli) chiedendo spiegazioni. Il direttore ha risposto che dal giorno dopo avremmo avuto la camera che avevamo prenotato e che non capiva perché ci lamentassimo, visto che i due alberghi erano uguali.
"Uguali???" ho chiesto quando me l'ha riferito. "Ma lo decide lui cosa è uguale per noi?E poi io non posso disfare la valigia e domani non possiamo andare in spiaggia appena ci svegliamo, perché dobbiamo aspettare che ci diano la camera..."
Per tutto il resto della vacanza, avremmo invece riso molto nel vedere tutti gli altri che arrivavano dopo di noi e che puntualmente, come noi, venivano dirottati in altre strutture per qualche giorno. Eh sì, perché al Costa Sur, a quanto pare, non negano mai una prenotazione. Poi, quando l'albergo è pieno, si preoccupano di risolvere in qualche modo.
La mattina successiva abbiamo avuto una bella camera, affacciata su una piscina circondata da palme.
Uno dei pregi dell'Hotel Costa Sur è che, pur essendo in una zona frequentata prevalentemente da inglesi e quindi costruita a loro immagine e somiglianza, è qualche chilometro fuori Sant Antonio. E Sant Antonio non è certo la città tranquilla che ci aspettavamo.
Sant Antonio sembra una città della costa inglese, mi faceva venire in mente Bournemouth e una vacanza di tanti anni fa, quando avevo diciassette anni e vivevo di biscotti Digestive perché mi sembravano l'unica cosa commestibile, mentre gli U2 cantavano "With or without you". Anche a Sant Antonio è difficile trovare qualcosa di commestibile perché per lo più vi si trovano pub inglesi, scozzesi, irlandesi e giovani pallidi e lentigginosi che bevono fiumi di birra.
Abbiamo sprecato una sera a Sant Antonio, mangiando una bistecca dura con contorno di patate fritte semicrude, poi abbiamo capito che i ristoranti veri, quelli buoni, sono quelli sulle spiagge e non ci abbiamo più messo piede.
Il primo ristorante sulla spiaggia l'abbiamo scoperto a cala Tarida che è bellissima, con l'acqua azzurra e limpida, sovrastata da un ristorante a terrazze che si chiama Cas Milà, dove si mangiano pesce e carne cucinati benissimo. La spiaggia di cala Tarida mi ricordava tantissimo quella dei conigli di Lampedusa, che è uno dei luoghi che mi sono piaciuti di più e dove vorrei tornare.
Accanto a cala Tarida, abbiamo scoperto le spiagge del Conte, tre piccole spiaggette fatte di scogli affacciati su un mare selvaggio, e cala d'Hort, che è proprio di fronte al bellissimo scoglio di Es Vedrà, uno dei simboli dell'isola. Poco distante da lì, c'è il Porroig, ovvero una zona selvaggia, dove le bellissime ville sono quasi invisibili in mezzo ai pini e alla vegetazione brulla. E' stato lì, mentre giravamo con la macchina da una spiaggia all'altra, che mi è venuta in mente Susanna Battelli, la protagonista del romanzo che ho scritto e riscritto più volte tanti anni fa e che ora vorrei risistemare e pubblicare con Lulu. Mentre guardavo fuori dal finestrino, continuavo a pensare a Susanna e in qualche modo, dentro di me, avevo iniziato a scrivere altre parti del romanzo. Allora, appena ho potuto, mi sono comprata un blocco e in camera ho scritto quello che credo sarà il prologo del romanzo. Era da tanto tempo che non scrivevo a penna, visto che ormai sono abituata a scrivere quasi solo col computer, ma è stato piacevole e in armonia con l'isola. Perché Ibiza è così: se da un lato ci sono i grattacieli di Sant Antonio e della moderna Eivissa, a pochi chilometri ci sono strade non asfaltate, dove sembra un sacrilegio perfino mettere un lampione per indicare la strada di notte.
Scendendo per il Porroig siamo capitati quasi per caso alla spiaggia di Es Torrent, una spiaggetta piccola e sassosa dove un cartello avvisa di non giocare a pallone, di non giocare con i racchettoni, di non parlare ad alta voce, di non tuffarsi... in poche parole a Es Torrent non si può fare niente e l'unica attrattiva sembra essere il ristorante con i tavoli sulla spiaggia, che cucina i migliori gamberi dell'isola.
Eravamo appena arrivati al parcheggio di Es Torrent e stavamo parcheggiando la macchina accanto ad un jeeppone scassato e polveroso dal quale stava scendendo un ciccione.
"Guarda!" ho detto al cmu. "Simon Le Bon!"
Lui è scoppiato a ridere.
"Sì, proprio questo!"
Il ciccione intanto stava trafficando con la maniglia della portiera per aprirla e far scendere un numero assurdo di persone. Mentre camminavano davanti a noi, sembravano una comitiva di turisti che seguivano diligentemente la guida, cioé il ciccione.
Poco dopo, mentre stavamo mangiando, dietro di noi il ciccione parlava al telefono.
"Simon Le Bon speaking..." diceva.
Ho sorriso trionfante al cmu.
Che Simon Le Bon fosse un ciccione, io l'ho sempre saputo, fin dagli anni Ottanta, infatti a me piaceva Morten Harket degli A-ha. Avevo un poster enorme di Morten appeso in camera, proprio di fronte al letto, e altri più piccoli sparsi un po' ovunque. Avevo anche i braccialetti di cuoio, che mettevo finché l'allergia non mi costringeva a toglierli.
E ora invece, dopo tanti anni, ecco qui Simon Le Bon, vestito da spiaggia, incurante del suo corpo sfatto, con l'aria un po' annoiata, circondato da una miriade di persone. Canta ancora, credo che abbia ancora successo, nonostante quell'espressione annoiata e un po' malinconica. Non so che fine abbia fatto Morten, da tanto tempo non sento più parlare di lui e l'ultima volta che ha cantato credo che lo abbia fatto in Timor Est, da paranoico quale è sempre stato, con la mania di aggiustare il mondo. Oggi preferisco Simon Le Bon, con quell'aria un po' triste e un po' annoiata, di uno che non ha mai smesso del tutto di vivere negli anni Ottanta e che forse continua a cercarli anche qui a Ibiza, mentre pranza ad Es Torrent e poi sparisce in barca.
Poco lontano da lì si arriva ad Eivissa. La città moderna è un porto qualsiasi, una città enorme, mentre Dalt Vila, arrampicata e medievale, è bellissima. Ci siamo arrivati una sera verso le sette, come l'altra volta, e come l'altra volta è stato divertente fermarsi a guardare i negozietti e le bancarelle della strada che porta al castello. Siamo forse anche finiti nello stesso ristoante dell'altra volta, El Portalon, dopo aver camminato a lungo e aver guardato l'isola dal camminamento e dalla terrazza. Abbiamo fatto altre foto, probabilmente identiche a quelle dell'altra volta, e sembrava che tutto fosse rimasto uguale, nonostante fossero passati nove anni. Soltanto ci siamo preoccupati di andarcene presto, verso mezzanotte, prima che ricominciasse il carnevale che invade le strade e di cui non ce ne importava niente.
In spiaggia, di giorno, sentivamo i racconti dei ragazzi, soprattutto italiani, a cui del mare non importa molto, e che invece vengono ad Ibiza per cercare lo sballo, la canna, il bicchiere di troppo. Questo è il lato triste dell'isola, il turismo che affolla Playa d'en Bossa, l'unica spiaggia brutta dell'isola, e che anche di giorno non riesce a fare a meno di vodka e spinelli.
Poco lontano da Playa d'en Bossa, invece, c'è il parco delle saline, con le spiagge più belle, Ses Salines e Es Cavallet. Siccome Es Cavallet è frequentata più che altro da nudisti e da gay, noi ervamo decisamente più a nostro agio a Ses Salines, che è un paradiso e che è l'altra faccia della Playa des Illetes di Formentera. A Ses Salines siamo tornati più volte anche negli ultimi giorni, quando volevamo imprimerci negli occhi il più possibile l'azzurro del mare perché possa farci compagnia nel lungo inverno che ci aspetta.
Siamo tornati più volte anche al ristorante Sa Capella, sulla strada tra Sant Antonio e Sant Agnes, una chiesa mai consacrata e trasformata in un ristorante molto suggestivo.
Abbiamo trascorso invece un solo pomeriggio a Sant Eulalia, che, delle tre maggiori città, è indubbiamente la più bella, quella più simile ad un posto di mare. Vicino a Sant Eulalia ci sono poi alcune delle spiagge più belle, come Aigues Blanques e cala San Vicente e, più a nord, Portinax.
E' stato quasi senza accorgercene che ci siamo ritrovati a dover raccogliere le nostre cose, sparse per la camera del Costa Sur, e preparare le valige per ripartire. Probabilmente, i portieri dell'hotel, hanno tirato un sospiro di sollievo perché potevano finalmente dare la camera promessa a qualche altro ospite, parcheggiato nel frattempo in un'altra struttura. Abbiamo lasciato la Opel Corsa, impolverata fuori e piena di sabbia dentro, nello stesso garage dell'aeroporto, dove ci sembrava di averla ritirata da pochissime ore e invece erano passate due settimane.
Abbiamo preso il nostro volo per Madrid e da lì quello per Milano, incrociando un gruppo di bresciani o bergamaschi che tornavano da un lungo viaggio in Argentina e che non si lavavano da quaranta ore. Il volo è partito in ritardo, i bresciani o bergamaschi, appena seduti, si sono tolti tutti le scarpe, rendendo l'aria irrespirabile. Abbiamo giocato a carte per distrarci, cercando ogni tanto il sacchetto per il mal d'aria, anche se era solo nausea.

sabato 5 luglio 2008

La lettura... una grande passione

Mi capita un'infinità di volte di sentire gente che dice "Non ho tempo di leggere" o, peggio, "Beata te che hai tempo di leggere!" Sì certo, beata me che in settimana dormo cinque ore per notte (ma nel weekend mi rifaccio con dei recuperi clamorosi). Io leggo appena posso e leggo di tutto, dal fumetto (resterò per sempre una fan di Diabolik) al classico, al polpettone. A volte mi diverto, altre mi annoio a morte, ma difficilmente abbandono la mia lettura, sono sempre curiosa di arrivare fino in fondo, magari anche solo per concludere che quel libro è una gran noia. Leggo ovunque, ma soprattutto sulla metropolitana e mai una volta che mi capiti di finire il capitolo nel momento in cui devo scendere, così mi tocca continuare a leggerlo mentre salgo le scale e riaffioro in superficie, oppure ancora oltre, mentre dalla stazione della metropolitana mi dirigo verso casa. Comunque ormai sono diventata piuttosto brava e riesco ad evitare quasi tutti gli ostacoli che mi si pongono davanti. L'anno scorso ho anche intercettato il marocchino che, credendomi un'idiota, ha infilato la mano nella mia borsa alla ricerca del portafoglio.

La mia passione per la lettura è nata indubbiamente da mia madre, non so se mi abbiano influenzato più i geni che ho ereditato da lei o il fatto di essere cresciuta in una casa dove si trovavano libri dappertutto e dove ci era permesso leggere di tutto. Mia madre non sapeva (e non sa) cosa volesse dire "censura". Per lei potevamo leggere qualsiasi cosa e sbuffava annoiata quando altri si scandalizzavano per quello che leggevamo. Per lei non esistevano libri per bambini e libri per adulti, per lei esistevano libri che, se erano belli, pensava ci avrebbe fatto piacere leggere, era comunque convinta che ci avrebbero insegnato qualcosa. Per esempio nel 1981, in pieno referendum sull'aborto, quando tornai a casa traumatizzata dal racconto di una maestra di religione, mia madre mi diede da leggere Lettera a un bambino mai nato.
Restai affascinata da quel libro, non tanto per i contenuti, quanto per la musicalità con cui venivano espressi, per il modo in cui una parola stava perfettamente dietro all'altra, entrando nel profondo del tema e anche della mia testa. Da quando avevo undici anni, non l'ho mai più riletto, eppure per molti anni (qualche volta persino oggi) ho ripetuto dentro di me le ultime parole, quella bellissima fine triste ma piena di speranza.
A undici anni, quando approdai alla Fallaci, avevo però letto già molto. Tralasciando Piccole donne e i loro vari seguiti, che probabilmente tutte le bambine della mia generazione hanno letto, scegliendo poi di fare tutt'altro nella vita, il primo libro "da adulta" che lessi fu Grazie lo stesso. Lo avevo sfogliato già molte volte e avevo letto la trama perché mi attirava il disegno buffo sulla copertina, con una ragazza in un quadro strattonato da due ragazzi. Quello che però mi attirava maggiormente era il sottotitolo, "Una Giovanna in due". Quel sottotitolo mi divertiva e mi faceva venir voglia di capire la storia che poteva esserci dietro.
"Se vuoi leggere Una Giovanna in due, leggilo," disse mia madre con naturalezza.
Fu così che conobbi Brunella Gasperini e la mia idea di romanzo e letteratura cambiò per sempre.
Per quanto riguarda Brunella, avevo visto la sua foto qualche anno prima sulla copertina di una rivista a casa di mia nonna. "Addio Brunella", c'era scritto accanto alla donna con gli occhiali, il sorriso simpatico e la cornetta del telefono attaccata all'orecchia. Mia nonna guardava quella foto con sguardo triste, come se fosse stata una sua amica. Da quando lessi Una Giovanna in due, Brunella divenne anche amica mia e tuttora ritrovo, nelle cose che scrivo o che ho scritto, qualcosa di lei.
Grazie lo stesso era un libro triste, malinconico e al tempo stesso buffo e divertente, come quella copertina. Forse la forza di quel libro stava nel raccontare una storia semplice, scritta con leggerezza, pur nella sua tragicità. La storia era quella dell'amicizia fortissima tra due ragazzi molto diversi, uno con alle spalle una famiglia modesta e unita, l'altro ricchissimo, con una famiglia spezzata. L'amicizia si rompe quando arriva Giovanna, che all'inizio si fidanza con il ragazzo di buona famiglia e poi si innamora del ragazzo sbandato, con la famiglia distrutta. La storia finiva con quello che avrebbe dovuto essere un lieto fine, ma in realtà restava la tragedia della morte di uno dei due amici e del rimorso dell'altro.
Qualche anno dopo, nella prefazione alle Note blu scritta da Nicoletta, la figlia di Brunella, scoprii che quello del lieto fine era uno dei cliché della letteratura femminile degli anni Sessanta e Settanta del quale Brunella avrebbe voluto liberarsi, senza tuttavia riuscirci. Io credo che in qualche modo ci sia riuscita perché, dietro il suo sorriso ironico, restava sempre l'amarezza per quella fine triste che proprio non si poteva evitare.
Proprio nelle Note blu, il lieto fine non sminuiva la tragedia, nonostante l'idea che in fondo la vita continua sempre, suggerita da Mariolina-la-ragazza-raggio-di-sole che saltellava sul marciapiede, felice di andare incontro alla felicità che inseguiva da tempo.
Le Note blu era uno dei miei libri preferiti, anche perché si ritrovavano i personaggi del primo libro, Fanali gialli. Fanali gialli riprendeva il tema di Grazie lo stesso, era la storia di due amici, Massimo e Mario, uno ricco e sbandato, l'altro povero e responsabile, con la madre e una sorella (Mariolina appunto) da mantenere. E poi c'era Francesca, la sorella maggiore di Renzo, innamorata di Massimo, che però avrebbe voluto innamorarsi di Mario. Ma il personaggio più affascinante era Tilla Gennari, la ragazza bellissima e complessata, che abitava vicino a Mario e che era sempre stata innamorata di lui ma non credeva nella possibilità di realizzare il suo amore perché lei veniva da una famiglia di "degenerati". In Fanali gialli il lieto fine era obbligatorio ed era esattamente quello che si voleva leggere, così come nelle Note blu era inevitabile la tragedia, che si percepiva già dalle prime pagine, dall'incontro di Tannie e Renzo.
Il libro di Brunella Gasperini che divenne il mio preferito e che ho riletto un'infinità di volte, resta però A scuola si muore. Il libro era breve, c'erano momenti in cui si rideva molto e momenti in cui la tristezza e la malinconia prendevano il sopravvento. Si svolgeva tutto nell'arco di una giornata, quella in cui il protagonista, arrivato a scuola in anticipo, entrava nella palestra e scopriva il cadavere di Sandra, la sua prima ragazza, di cui in fondo era ancora innamorato. Nell'arco della giornata il protagonista viaggiava da un flash back all'altro, rincorrendo i ricordi della sua storia con Sandra, fino alla fine, quando lei aveva iniziato a drogarsi. E poi c'erano gli amici, di cui aveva smesso da tempo di fidarsi, e la scoperta della storia tra la madre, vedova, e il professore di italiano, che era stato per lui un padre. Il libro era bellissimo e i personaggi erano vivi, con tutti i loro difetti ma anche i loro lati positivi, compreso il protagonista, che scopriva di esser stato inutilmente sospettoso nei confronti degli amici e stupidamente cieco nei confronti della madre e della sua storia con il professore. E poi c'era quella fine drammatica, in cui si scopriva che, come diceva il sottotitolo "Gli assassini sono due: la droga e un altro".
Avevo già letto e amato il libro da qualche anno quando a scuola (facevo le medie) la professoressa di italiano si ritrovò a parlare di Brunella Gasperini e disse: "Di lei potete leggere tutto, tranne A scuola si muore". Poi intercettò il mio sguardo perplesso. "Ce l'hai in casa?" mi chiese. Risposi che l'avevo anche letto e che mi era piaciuto moltissimo.
"Dovevi proprio dirle che l'avevi letto?" mi chiese mia madre irritata, quando rientrò in casa dopo essere stata a parlare con la professoressa. Eh sì, dovevo proprio dirglielo.
Ho riletto più volte quel libro e anche l'ultimo, Una donna e altri animali, quello autobiografico, col quale Brunella voleva "uscire del ghetto della letteratura femminile per entrare in quella (diciamo così) unisex".
Ho ripensato a lei qualche settimana fa, quando sono approdata al forum di Lulu "Storie d'amore" e mi è venuta in mente la sua raccolta di racconti, Storie d'amore storie d'allegria. Ho cercato il suo nome su internet e ho scoperto che alcuni dei suoi libri sono ancora in vendita, mentre altri sono introvabili. Ho letto anche i commenti di molte persone che l'avevano scoperta dopo la sua morte, come me. Sicuramente i suoi romanzi sono un po' datati, legati agli anni Settanta e alle loro battaglie, credo che però il suo modo di raccontare e di descrivere i sentimenti sia sempre attuale.
Proprio in questi giorni ho sentito Severgnini che, alla radio, diceva che un classico è quello che fa provare emozioni a diverse generazioni. Credo che allora i libri di Brunella Gasperini lo siano.

domenica 22 giugno 2008

Marianna Di Cuori

L'idea mi era venuta già un po' di tempo fa, quando avevo aperto il blog sul cannocchiale e avevo visto che esisteva una sessione "Vita da impiegati". E' stato allora che mi è venuta voglia di creare un blog con un personaggio buffo, che riuscisse ad essere divertente e a prendere in giro i luoghi comuni, facendone tuttavia parte. Così ieri mi è venuta in mente Marianna Di Cuori, una donna qualunque, allegra e stressata, un'impiegata stanca che però vorrebbe poter lavorare meglio e serenamente.
Marianna Di Cuori è molto bella, alta e magra, con i capelli biondi corti e ricci, gli occhioni blu. Tutto questo è spesso solo un impedimento in più per lei, un motivo per non riuscire ad essere presa sul serio, cosa che capita spesso anche alle sue sorelle, Isabella e Sofia.
L'unico problema che ho nei confronti di Marianna è che non so se riuscirò ad avere la costanza di portare avanti le sue avventure, perché un conto è scrivere un romanzo o un racconto, un altro è scrivere qualcosa di più continuativo. Comunque per ora mi diverte pensare a lei e immaginare quello che le capita, spero diverta anche chi leggerà.
A parte questo, spero che nessuno pensi che Marianna sia un personaggio autobiografico: lei è molto più bella e (spero!) molto più sfigata, una a cui capitano tutte.

venerdì 13 giugno 2008

Indiana Jones... vent'anni dopo

Ebbene sì, dopo oltre vent'anni sono andata di nuovo al cinema a vedere Indiana Jones.
Dico dopo oltre vent'anni perché l'unico che ho visto al cinema è stato Il tempio maledetto. Non avevo mai visto il primo, che avrei intravisto alla televisione molti anni dopo, mentre ho saltato l'ultimo, quello con Sean Connery che impersona il padre.
Sono passati oltre vent'anni, dicevo, avevo appena iniziato il liceo, e ora sembra passata un'eternità. Eppure, anche se ci informano che siamo nel 1957, gli anni Ottanta sono presenti prepotentemente fin dall'inizio, quando, nel bel mezzo di una strage, l'uomo che l'ha ordinata, si allaccia tranquillamente una scarpa. E qui inizia subito la nostalgia e anche un po' di tristezza. Perché, diciamolo, questo film è soprattutto malinconico e all'insegna del tempo perduto. Infatti, a pochi minuti dall'inizio, quando il compagno di sventure gli ricorda tutte le situazioni peggiori in cui si sono trovati, Indiana Jones risponde cupo: "Eravamo giovani". E noi, cattivissimi, ci ricordiamo i film precedenti e notiamo che sì, è proprio invecchiato. Che Harrison Ford fosse invecchiato, a dire la verità, lo si notava già benissimo circa quindici anni fa, ai tempi di Air Force One e questo è molto bello, è la risposta delle donne alla convinzione di alcuni uomini di essere destinati ad invecchiare più lentamente. Al proposito si potrebbe anche citare Richard Gere in The Hunting Party.
Purtroppo il nostro sorriso e la nostra soddisfazione durano poco: anche la povera Marion, mentre aspettava Godot, è invecchiata e imbolsita e i perfidi pantaloni marroni non aiutano certo a nasconderlo.
Cate Blanchett, che ai tempi degli altri film andava al liceo come noi, è spartanamente perfetta, come sempre. Così perfetta che viene spontaneo chiedersi perché. Sì, ad un certo punto del film mi sono chiesta perché non far fare a lei la parte del figlio, visti i suoi precedenti come Bob Dylan: sarebbe stata perfetta. Perché se si può sopportare di avere vent'anni di più, se si può sopportare che Indiana Jones e Marion siano invecchiati, non si può proprio sopportare che abbiano avuto un figlio con la faccia di plastica di Shia Le Boeuf. E alla fine ci ritroviamo a sperare che non raccolga quel cappello, che non ci rovini quel ricordo di quando non avevamo ancora vent'anni.

Monica Valentini


A proposito di Monica Valentini... è un'amica conosciuta su Lulu, una persona intelligente e generosa, molto sensibile. In poche parole, è un'artista vera, poliedrica, capace di scrivere con uno stile deciso e delicato al tempo stesso, che le permette di esplorare i lati più nascosti e segreti dei suoi personaggi e della storia, della quale riesce a cogliere il lato umano più misterioso e inaspettato. Poiché in questo blog vorrei parlare di libri, pittura, teatro, film, mi sembra sia giusto iniziare con una scrittrice che ha anche il dono di saper disegnare con la stessa leggerezza e la stessa forza con cui scrive.
Il Condottiero è un romanzo che si legge d'un fiato, presi dalla forza con cui Monica riesce a far rivivere i suoi personaggi, soprattutto Lucrezia. Si è trascinati dal filo dei loro pensieri, dei loro ricordi, dal loro punto di vista su avvenimenti che, a volte, sui libri di scuola, ci sono stati presentati in una luce diversa e distorta.
Cristalli è un libro "cattivo", con un protagonista violento, visto attraverso gli occhi offuscati dall'amore di una sorella troppo debole per resistergli. E' un protagonista che attrae e dal quale nello stesso tempo si vorrebbe (dovrebbe?) fuggire. E' una delle rare volte in cui Monica si allontana dalla storia, eppure Siegfried è sicuramente il suo personaggio più inquietante e complesso.
Roma vista da me è una divertente raccolta di "interviste" che dà voce a diversi personaggi che hanno contribuito, ciascuno a suo modo, a rendere grande la città. Ancora Monica affronta la storia esaminandola attraverso gli occhi di chi l'ha vissuta e offre un'interpretazione profonda, che va oltre i manuali.
Come convivere con uno sport sconosciuto è il racconto divertente e umoristico con cui ho scoperto questa scrittrice e ho deciso che volevo leggere tutto quello che ha scritto.
L'ombra della ginestra è l'unico dei suoi romanzi che non ho ancora letto e davvero non vedo l'ora...
Per quanto riguarda la sua abilià nel disegno, non resta che visitare la sua vetrina:

Frammenti di specchi

E' stato un caso, un articolo sul giornale, che anni fa mi ha portato a scoprire Lulu. In realtà però, dopo averlo scoperto, non avevo fatto molto: soltanto avevo aperto l'account e avevo iniziato a tradurre in inglese un vecchio romanzo che avevo scritto e riscritto parecchie volte negli anni. L'avevo tradotto in inglese perché il fatto che Lulu fosse americano mi aveva portato a pensare che fosse inutile pubblicare in italiano, poi al primo capitolo mi ero fermata perché troppe altre cose mi distraevano e il tempo per stare sul pc a tradurre non c'era mai. Poi, circa sei mesi fa, un altro articolo sul giornale mi ha fatto tornare ad utilizzare l'account che avevo quasi dimenticato e, mentre girovagavo per il sito, ho scoperto che c'era il gruppo degli Autori italiani, che sono attivissimi e scrivono e leggono moltissimo. In italiano, naturalmente. Allora mi sono ricordata dei miei racconti, che avevo scritto tantissimi anni fa (forse secoli) e li ho recuperati. E' stato divertente rileggerli e riscoprirli, perché alcuni li avevo dimenticati, mentre altri li ricordavo perfettamente. Tutti però mi hanno fatto ripensare ai momenti della mia vita in cui li avevo scritti, una vita che ora è molto diversa ma forse proprio per questo è facile provare nostalgia per il tempo in cui scrivevo i racconti. Non voglio con questo dire che tutti i racconti mi piacciano, anzi, alcuni li trovo molto ingenui.Questi racconti dovevano essere una carrellata di ritratti, una serie di donne, spesso insoddisfatte, spesso stanche e pentite dei loro errori. Eppure, mentre li scrivevo, mi sembrava che alla fine, in ognuna di loro, ci dovesse essere sempre qualcosa di buono che prima o poi veniva fuori. Diciamo che spesso partivo da una protagonista che mi era antipatica e poi, via via che scrivevo, che conoscevo i suoi pensieri, mi diventava simpatica o perlomeno riuscivo a capire più cose di lei rispetto a quando ero partita.Non sarei mai riuscita a pubblicare questi racconti su Lulu se non fosse stato per un'amica che mi ha aiutato a recuperarli e a copiarli su un nuovo pc. E poi ho avuto il bellissimo regalo di una copertina fantastica di un'amica di Lulu, Monica Valentini.