lunedì 29 giugno 2020

Françoise Sagan - Il tubino nero

«Ci vestiamo per spogliarci. Un abito è davvero un abito solo quando un uomo ha voglia di potervelo togliere.»


Ho scoperto stamattina, mentre facevo colazione, che questa frase di Françoise Sagan è stata alla base del litigio tra la Murgia e lo psicologo Morelli. È una frase che conosco bene perché è scritta sulla quarta di copertina di un piccolo libro, "Il tubino nero", una raccolta di articoli scritti per Vogue, che ho trovato anni fa alla Rizzoli. È una frase che adesso scopro essere stata definita superata e sessista. Sessista, riferito alla Sagan, ho dovuto rileggerlo un po' di volte, prima di rassegnarmi che era proprio vero. E forse qui bisognerebbe fare lo sforzo di andare oltre quella frase sulla quarta di copertina e leggere il libro, che è davvero breve, ma in cui c'è tantissimo. Soprattutto c'è lo sguardo ironico di una scrittrice che ha sempre raccontato la vita in modo leggero, ma proprio per questo terribilmente profondo. E anche questo libro, che parla di abiti, di moda, che è un gioco, parla in realtà della vita, del suo modo di vederla e di viverla. Soprattutto bisognerebbe leggere il capitolo sul riso, sull'incapacità di prendersi sul serio anche quando il successo di "Bonjour tristesse" la travolse, a diciotto anni («...la mia famiglia che, da quando avevo dodici anni, cambiava direzione nei corridoi vedendomi munita di fogli, perché leggevo le mie tragedie alla prima vittima abbastanza debole o abbastanza stanca da non evitarmi, la mia famiglia nel mio primo romanzo non vide altro che le mie fantasticherie  e i miei slanci intellettuali più recenti.» «Oggi so che senza la mia famiglia avrei forse acquisito una di quelle discrete ma infedettibili auto-ammirazioni che cullano certi autori...»). Forse allora si riuscirebbe a capire quanto ci siamo appesantiti e intristiti, quanto, senza saperlo, siamo diventati simili al suo personaggio più bello, Antoine, il protagonista de "La disfatta", nel momento in cui diventa un po' meno bello, un po' troppo compreso in se stesso, con «la tendenza ad ascoltarsi parlare.»

mercoledì 17 giugno 2020

Fernanda Pivano

Nel vortice iconoclasta di questi giorni, si è scoperto che a Milano non ci sono statue di donne. Pare che per qualcuno il s euesso delle statue sia molto importante e da qui è nata la proposta di una statua a Fernanda Pivano. Così, nello stupore, è emerso che in molti non sanno nemmeno chi fosse.
La notizia della sua morte mi raggiunse in un giorno d'agosto di undici anni fa su una spiaggia delle Baleari e mi lasciò un vuoto che il mare e la bella giornata di vacanza non riuscirono a colmare. Undici anni non sono tanti, eppure così poco è bastato perché ci si dimenticasse di lei, perché i giovani nemmeno sappiano chi fosse.
Fernanda Pivano aveva grandi occhi profondi e un sorriso contagioso, pieno di energia e amore per la vita, nonostante la vita non fosse stata sempre gentile con lei (e con chi lo è?).
Fu compagna di scuola di Primo Levi e Cesare Pavese uno dei suoi professori (supplente, in realtà). Anni dopo, quando lui morì, fu lei a scrivere alcune tra le parole più belle: «Quella sera aveva inghiottito la sua polvere assassina; nessuno di noi gliela aveva tolta dalle mani. Ci ha perdonato, ci ha chiesto perdono. Di che cosa, Pavese? Che cosa le avevo fatto, che cosa mi aveva fatto, che cosa ci aveva fatto dopo aver aiutato decine di scrittori a farsi conoscere, con quel suo viso tragico che aveva dimenticato il sorriso, quella sua vita segreta che non aveva svelato a nessuno, quella sua infinita conoscenza del mondo che non le è bastata per sopportarlo.»
Quando la Pivano chiese a Pavese la differenza tra la letteratura americana e quella inglese, lui le portò l'"Antologia di Spoon River" e lì scattò la scintilla.
Lei per prima intuì che la letteratura contemporanea, nel ventesimo secolo, sarebbe stata la letteratura americana, che l'America sarebbe stata il principale laboratorio di idee e di stili e che avrebbe influenzato tutto il resto del mondo.
È grazie a lei, al suo amore per la letteratura, alla sua gioia nel ritrovarvisi immersa, se in Italia sono arrivati e sono stati tradotti i libri di Hemingway, quelli della Beat Generation e alla fine anche quelli dei Brat Pack. Ma le dobbiamo anche i Diari, i suoi testi critici, delle bellissime poesie.
Io una statua della Pivano la vorrei perché sarebbe un monumento alla letteratura, alla commistione delle culture, alla sua voglia di amore. («Con molto dolore per i morti e per la tragedia devo dichiararmi perdente e sconfitta perche’ ho lavorato 70 anni scrivendo esclusivamente in onore e in amore della non violenza e vedo il pianeta cosparso di sangue», fu il suo commento dopo l'11 settembre 2001).
Vorre questa statua perché i giovani tornassero a conoscerla, visto che è stata davvero giovane per tutta la vita, anche quando era ormai vecchia, e credo che avrebbe davvero molto da dire anche a loro. Non vorrei però una statua solo perché serve la statua di una donna, una qualunque, anche sconosciuta. Perché una statua così non la vorrebbe nessuno e Fernanda Pivano non se la merita proprio.

martedì 9 giugno 2020

Milanesi per sempre - A. A. V. V.

Non ricordo di preciso quando ho comprato questo libro, ma a marzo avevo nostalgia della mia città, che guardavo dal balcone, e mi è venuta voglia di prenderlo dalla libreria.
L'ho intervallato con altre letture, lasciandolo anche per settimane sul comodino, perché a me non piace leggere i racconti tutti di seguito. Ci ho trovato la città che conosco e nella quale ho sempre vissuto, ma anche una città diversa, che non conoscevo.
Il primo racconto, "Come un'oasi", di Erica Arosio, mi è piaciuto molto e mi ha fatto venire voglia di andare a visitare Villa Necchi. Mi sono infastidita invece nel leggere "a corso Lodi" nel racconto di Ileana Luongo, la curatrice della raccolta, anche se è normale, in un libro di racconti, che ci siano alti e bassi. Qui, più che bassi, ho trovato qualche ingenuità, qualche storia a cui mancava lo slancio. Ho girato però per le vie della città, avanti e indietro nel tempo, e, grazie al racconto di Geraldine Meyer, sono tornata in corso San Gottardo negli anni Settanta, proprio quando ci abitava mia zia, e mi sono ricordata della Upim, nella quale l'autrice non entrava e io invece sì, ci entravo e mi stupivo che fosse come quella vicino a dove abitavo io. E poi ad un certo punto, inseguendo Davide Grassi nel suo racconto "Milano, i luoghi del rock", mi sono trovata di nuovo a casa mia, nel passato della mia casa, prima che ci arrivassimo noi.

domenica 7 giugno 2020

Il bottone di Puškin - Serena Vitale

«... La Russia ha appena perso l'uomo di maggior rilievo della sua letteratura, il più celebre poeta che abbia avuto, il signor Alexandre Pouschkin. È morto all'età di 37 anni, all'apice della carriera, in seguito a una grave ferita ricevuta in duello. I particolari di questa sciagura, che il defunto ha malauguratamente provocato egli stesso con una cecità e una sorta di odio frenetico degni della sua origine moresca, costituiscono da qualche giorno l'unico argomento di conversazione della capitale. Si è battuto con suo cognato, il signor Georges de Heeckeren, francese di nascita, figlio adottivo del ministro d'Olanda barone Heeckeren, questi, che precedentemente si chiamava d'Antés, era ufficiale degli "chevaliers gardes" e aveva da poco sposato la sorella della signora Pouschkin... »
Maximilian von Lerchenfeld-Köfering, ambasciatore del regno di Baviera, 29 gennaio 1937.

Un post di ieri sulla giornata della lingua russa mi ha fatto ripensare a "Il bottone di Puškin" di Serena Vitale, che ho letto una decina di anni fa. Prima di leggerlo mi era capitato spesso di ripensare a Puškin che entrava in una pasticceria, beveva una spremuta di limone, poi si dirigeva verso il suo destino, nel luogo convenuto per il duello. Sapeva che sarebbe morto, oppure sperava di salvarsi? 
La Vitale ricostruisce la vicenda sulla base di lettere, memorie, rapporti della polizia segreta, facendo emergere, oltre alle figure di Puškin e d'Antés, una società fastosa, sfavillante, frivola, ma popolata anche da personaggi intriganti e potenti, da esseri invidiosi e da spie. È la stessa società che pochi anni più tardi sarà accusata da Lermontov di aver assassinato il più grande poeta russo, ma anche Lermontov morí in un duello, aveva appena ventisei anni e fu un duello assurdamente e incredibilmente simile a quello che proprio lui aveva raccontato in "Un eroe del nostro tempo". Puškin fu "il principio del principio", il punto di svolta della letteratura russa, che dopo di lui abbandonò il binario secondario sul quale era incanalata.
Mi piace pensare che qualcosa di Puškin sia arrivato anche alla Némirovsky, che pensò un po' al suo "sangue africano" quando scrisse "Il calore del sangue". Lo stesso sangue che Maximilian von Lerchenfeld-Köfering individuò come la causa della morte "dell'uomo di maggior rilievo della letteratura russa".