L'ho comprato più che altro per curiosità, dopo aver letto una serie di recensioni e commenti contrastanti. "Caos calmo" mi era piaciuto così cosi, però ci avevo trovato dei luoghi che amo e mi aveva fatto piacere trovarceli. Qui ho trovato Bolgheri, ma ad un certo punto, quando la lettura era già abbastanza inoltrata, ho scoperto che non era proprio Bolgheri, era il Renaione, che nemmeno conosco. Questo romanzo è stato un po' così: una serie di promesse non mantenute.
Avevo letto che è un romanzo borghese, in realtà però è il romanzo di un borghese a cui i borghesi non piacciono e li riduce ad un elenco di oggetti che tengono insieme i genitori del protagonista, una coppia che forse si è amata in un tempo lontano, ma che passa il resto della vita a detestarsi, a litigare sottovoce, senza trovare il modo di lasciarsi. Una coppia che si contrappone a Marco, il protagonista, e Luisa, che si amano da sempre ma non stanno mai insieme, infatti, quando potrebbero, decidono di fare un voto di castità di cui non si capisce in nessun modo il senso. Marco è uno dei personaggi più irritanti, un uomo buono fino alla stupidità più estrema, con una famiglia segnata da una grande disgrazia, si porta dietro una certa difficoltà ad instaurare relazioni con le persone che lo circondano, a partire dall'amico dell'adolescenza per arrivare alla moglie. Bisogna aggiungere che i personaggi che lo circondano sono tutti abbastanza improbabili e stereotipati e che chiunque avrebbe difficoltà a relazionarsi con loro. Marco però è uno che riesce a chiudere un'email con «Abbraccio lo schermo» e già qui si rischia di chiudere il libro e di non riaprirlo.
L'unica persona con cui Marco riesce ad avere il rapporto più forte e profondo è l'amatissima nipote, l'ultimo essere umano che gli resta accanto. Una nipote che gli viene annunciata come l'uomo nuovo e poi - sorpresa - l'uomo nuovo è una donna. «Fisicamente, fioriva giorno dopo giorno di una bellezza inaudita, concepita fin lì soltanto per gli avatar dei videogiochi: più alta della sua età, slanciata, i capelli ricci e morbidissimi, la pelle marrone scuro, gli occhi a mandorla di un azzurro simile a quello del fondo di una piscina - pare davvero assemblata scegliendo tra le opzioni di un menu.» La nipote è quindi un personaggio ancora più improbabile degli altri, quella che ispira una dissertazione sulla battaglia tra verità e libertà che ruba la scena a quello che a me è sembrato l'unico tema davvero interessante del libro, l'interruzione volontaria della vita in presenza di una malattia incurabile. Ma il romanzo non parla di questo, è solo un tema sfiorato per altri scopi.
Non so quali siano i criteri per cui un libro arrivi a vincere lo Strega, contrariamente all'opinione comune, però, io ho apprezzato moltissimo alcuni libri che l'hanno vinto, soprattutto "Le menzogne della notte", ma anche "Vita" e uno dei più discussi, "La ferocia". Non riesco ad accostare a nessuno di questi "Il colibrì", né per l'incisività dei personaggi, né per l'originalità della trama o per il modo in cui viene raccontata. È una trama che si svolge infatti attraverso una serie di episodi raccontati alla rinfusa, senza un ordine cronologico ma senza nemmeno seguire il flusso di coscienza del protagonista. Il narratore resta infatti fortemente presente, a tratti uscendo prepotentemente allo scoperto, come quando racconta il momento più drammatico della vita di Marco chiamandolo «il nostro fratello Marco» e riducendo anche quel momento a una farsa che impedisce di "sentire" il dolore di Marco. La povertà di linguaggio è forse voluta, per rendere la storia una storia qualunque, di tutti i giorni, ma Veronesi, ad un certo punto, riesce persino ad infilarci la "resilienza" e qui esagera proprio.
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