sabato 19 ottobre 2019

Noi i vivi - Ayn Rand

Pietrogrado puzzava di fenolo.
Una bandiera grigio-rosato, che era stata rossa, pendeva dall'intreccio di raggi d'acciaio. Alte travi salivano verso un soffitto di lastre di vetro grigie come l'acciaio per la polvere e il vento di molti anni; alcuni vetri erano rotti, bucati da fucili dimenticati, punte acuminate protese verso un cielo grigio come l'acciaio. Sotto la bandiera pendeva una frangia di ragnatele; sotto le ragnatele un enorme orologio da stazione con numeri neri su un quadrante giallo e senza lancette. Sotto l'orologio, una folla di facce pallide e soprabiti unti aspettava il treno.
Kira Argounova entrò a Pietrogrado dalla soglia di un carro bestiame. Stava dritta, immobile, con l'indifferenza elegante di un viaggiatore su un lussuoso transatlantico, con un abito azzurro stinto, con gambe magre, abbronzante, senza calze. Un vecchio pezzo di seta intorno al collo, e i capelli corti arruffati, e un berretto di lana con un ponpon giallo. Aveva una smorfia tranquilla e gli occhi spalancati in uno sguardo di sfida, curiosità, attesa solenne e preoccupata come un guerriero che entra in una strana città e si chiede se stia entrando da conquistatore o da prigioniero.




Ho rimandato a lungo il momento in cui iniziare a leggere Ayn Rand, perché non sapevo se mi sarebbe piaciuto il suo modo di scrivere e temevo che le sue storie mi avrebbero annoiato. Poi, due anni fa, in spiaggia, ho deciso di iniziare dal suo primo romanzo, l'unico, a quanto apprendo, che si svolge in Russia.
Ho faticato durante le prime cento pagine, procedendo lentamente e quasi svogliatamente. Sono passati circa vent'anni da quando ho letto "La madre" di Gorki e non mi aspettavo di ritrovarmi immersa in quelle stesse atmosfere, soprattutto non ero pronta per sprofondarci di nuovo. E poco importa se il libro di Gorki si svolge prima della rivoluzione e quello di AR dopo: non sembra essere cambiato molto. Addirittura un personaggio, Andrei, un eroe della rivoluzione, uno che era entrato nel partito quando questo poteva significare la Siberia, potrebbe essere l'erede di Pavel Blassov.
Ma questo, come spiega l'autrice nella prefazione, non è un libro sulla Russia e sulla rivoluzione russa: questo è un libro sulla lotta tra l'individuo e l'oppressione di uno Stato dittatoriale. Nell'introduzione ho letto infatti che Mussolini autorizzò un film tratto dal romanzo, in quanto lo riteneva una critica al comunismo. Pochi mesi dopo invece si trovò costretto a ritirarlo e vietarlo, in quanto la popolazione si era resa conto della similitudine con la propria situazione.
Ho detto che le prime cento pagine sono state faticose, ma devo aggiungere che da un certo punto in poi non avrei più voluto staccarmi dal libro, perché i personaggi e le loro vicende erano così interessanti e coinvolgenti che continuavo a pensare a loro anche quando facevo altro. E la protagonista, Kira, che all'inizio percepivo come antipatica e distaccata, mi ha ispirato compassione e a volte persino rabbia per le sue scelte.
È un'umanità difficile quella che viene descritta, un'umanità disperata, ed ognuno reagisce alla disperazione come può, magari diventando qualcosa di molto diverso da quello che sarebbe potuto essere se la sua vita avesse potuto essere diversa.


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