Questo libro l'ho preso a casa di mia madre. A lei era piaciuto abbastanza, ma non l'aveva fatta impazzire. L'avevo appoggiato sul comodino, ad alimentare la pila di libri da leggere.
Poi è morto Carlo Vanzina e ho rivisto "Via Montenapoleone", un film che avevo visto al cinema a sedici anni, un sabato pomeriggio, con un'amica. Ci ho ritrovato gli anni Ottanta, la mia città com'era allora e anche qualcosa di me. L'ho guardato con un misto di divertimento, nostalgia e rabbia: eravamo come ci hanno descritto i Vanzina, non c'è da stupirsi che siamo quelli che siamo.
Così ho messo il libro in valigia. Il titolo evoca le serate d'estate in cui si passa più tempo all'aperto e mi aspettavo, chissà perché, un'autobiografia. Ho trovato invece un mistero, un noir più che un giallo, ma soprattutto ho trovato quel romanzo su Roma che Federico, il protagonista, vorrebbe scrivere. Un romanzo su una città troppo bella, sospesa tra il vecchio e il nuovo, una città in cui si mescolano la vecchia nobiltà, con i suoi giochi e le sue vendette, le istruttrici sudamericane di pilates, ambigui uomini d'affari. Una città in cui tutti inseguono quello che non hanno, per poi rimpiangere quello che hanno lasciato andare senza accorgersene.
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