Era il 2010
ed ero con mia sorella nella nostra libreria preferita, la Mondadori di corso
Vittorio Emanuele, le ex Messaggerie Musicali, adesso Mango, quando lei ha
sorriso in direzione di uno scaffale e ha preso un libro con la copertina
marrone: si intitolava "I cani e i lupi".
- Un altro libro della Némirovsky! - ha esclamato felice.
- Chi è? - ho chiesto. Il nome ostrogoteggiante non mi diceva
niente, se non che forse quell'autore era russo, ma io, che pure di autori
russi ne conosco parecchi, non ne avevo mai sentito parlare.
- Irène Némirovsky, - ha detto lei mostrandomi il nome sulla
copertina. - Mi piace tantissimo.
Sarà, ho pensato mentre la accompagnavo alla cassa a pagare.
Ci è voluto qualche mese e la lettura della quarta di
copertina di alcuni libri, prima che mi venisse la curiosità di leggere quella
strana scrittrice, di cui non avevo mai sentito parlare ma che era morta nel
1942, quando l'olocausto compì un doppio crimine: verso di lei e la sua povera
vita ancora giovane, e verso di noi, per averci privato delle sue opere.
Per fortuna, però, prima di morire ad Auschwitz, la Némirovsy
fece in tempo a scrivere molti romanzi e racconti e io iniziai leggendo
"Il calore del sangue".
Il libro era piccolo, un formato comodissimo da portare nella
borsa e leggere sulla metropolitana nel tragitto verso l'ufficio. Lo lessi in
un giorno e mezzo, senza quasi riuscire a staccarmi e facendolo malvolentieri,
quando proprio non potevo evitare. Lo trovai bellissimo, una storia
appassionante e scritta in modo avvincente. Leggevo e per il resto del tempo mi
ripetevo le frasi che avevo letto, ripensavo alle scene del breve romanzo,
soprattutto quella in cui il protagonista entra nella locanda e vede la propria
immagine riflessa nello specchio. Una scena molto simile a quella di un
racconto di Maupassant. Direi che c'è molto di Maupassant in questo breve
romanzo, che forse è il romanzo più francese della Némirovsky. Ci sono libri
che ci piacciono e ci sono libri di cui intuiamo la grandezza anche se non ci
appassionano particolarmente. E poi ci sono libri che ci entrano dentro e con
loro ci entrano dentro i loro autori. Perché forse, in realtà, questi libri
erano già in noi, nascosti da qualche parte, e bastava soltanto che qualcuno ci
aiutasse a trovarli. "Il calore del sangue" è un racconto delicato,
eppure forte, di tutto quello che è sepolto dentro di noi. È il racconto di
qualcosa che è successo molto tempo fa, quando eravamo persone diverse, quando
il nostro sangue caldo ci ha fatto fare qualcosa che ora vorremmo non aver
fatto. Qualcosa che abbiamo tentato di dimenticare e di nascondere e che invece
è rimasto dentro di noi, perché in fondo è la nostra parte più vera e più
autentica.
Per tutto il tempo della lettura, pensai a pochissime altre
cose al di fuori del libro e, quando lo finii, provai un forte senso di
malinconia, un po' per lo sviluppo della vicenda, un po' per la tristezza di
averlo finito, un po' per il senso di amarezza che lascia il bellissimo finale,
che arriva inaspettato. Ma mi restò la certezza che della Némirovsky avrei
letto tutto.
Ho detto che "Il calore del sangue" è il più francese
dei suoi romanzi, la Francia infatti è il paese in cui si stabilì con i
genitori dopo la fuga dalla Russia, e il francese la lingua in cui scelse di
scrivere i suoi libri. La complessità del rapporto con questo paese, che pure
sentiva suo, ma che non era realmente suo, fa emergere il paradosso ebraico,
che la collega ad Heine, a Kafka e allo stesso Roth. Il paradosso sintetizzato
dalla battuta di Marcel Reich-Ranicki: "Sono tedesco al 50%, polacco al
50% e ebreo al 100%".
Il rapporto con la Francia è il cardine di "Suite
francese", il romanzo che doveva essere il suo "Guerra e pace",
concepito come un'opera monumentale e che restò purtroppo incompiuto, ritrovato
anni dopo la sua morte, nella valigia che aveva affidato alle figlie, composto
soltanto delle prime due parti, molto diverse tra loro e quasi slegate. Il
labile filo che le unisce è la guerra, rappresentata attraverso un romanzo
corale nella prima parte, quella della fuga dei francesi dalle città, in
cui la scrittrice osserva la loro frenesia, le loro paure, le vigliaccherie e i
gesti di coraggio. E' qui che sente di appartenere e non appartenere al paese
che ha scelto e che in qualche modo sta iniziando a respingerla. La
seconda parte è quella che invece ha ispirato il film ed è piuttosto curioso
perché, dagli appunti della Némirovsky, l'amore tra Lucille e l'occupante
tedesco Bruno avrebbe dovuto restare marginale sia per il romanzo che per la
vita di Lucille stessa, destinata invece all'"amore vero" con Jean
Marie.
Ma fa un certo effetto leggere queste pagine, conoscere la
sua vita, e notare come la Némirovsky sia riuscita a spogliare i soldati
tedeschi delle uniformi nemiche e a guardare i ragazzi, sradicati dalle loro
case, allontanati dalle loro vite e mandati a combattere una guerra che forse
non comprendevano. In queste pagine la Némirovsky ha visto quegli stessi
ragazzi di cui, pochi anni più tardi, avrebbero parlato Böll e Lenz. Ha capito
i soldati, gli uomini, ma non ha capito la guerra. O forse non ha voluto
rendersi conto che lei, in quel paese, che ormai era il suo paese, era in
pericolo in quanto straniera.
Oppure era restia a lasciare la Francia perché già una volta
aveva dovuto lasciare il suo paese e il racconto della fuga, con un breve
soggiorno in Finlandia, si trova ne "Il vino della solitudine", uno
dei suoi romanzi più belli e più amari. Ma, nonostante si sentisse francese,
non ruppe mai il legame con la letteratura russa, che, alla fine, restò la sua
vera patria. I suoi libri, infatti, pur essendo scritti in francese, rivelano
il legame strettissimo con i grandi scrittori russi. Soprattutto, in ogni sua
pagina, traspare l'influenza di Cechov, di cui, con la Berberova, è l'ultima
erede. Entrambe infatti, come Cechov, privilegiano la forma breve che, come per
il grande autore, è quella più congeniale ai loro racconti, basati sull'ironia
delicata e un po' amara con cui vengono guardati i personaggi e le loro
vicende. Come nella raccolta di racconti "Domenica", in cui
un'umanità un po' sfatta e senza più ideali, si lascia vivere tra le due
guerre. In questi racconti è forte il contrasto tra la rassegnazione dei
personaggi, il loro senso di sconfitta, e una scrittura pulita e precisa.
A Cechov la Némirovsky dedicò un saggio che può essere visto
forse come un omaggio o una dichiarazione d'amore assoluto. È una biografia
romanzata da cui Cechov esce come un uomo mite e semplice, umile e di buon
carattere. Un medico attento, anche se tormentato dalla propria salute
cagionevole. È una vita semplice, quella che si delinea in questo saggio, al
punto che viene da chiedersi come abbia avuto modo di conoscere così bene le
sfumature dei rapporti umani, lui, uno che se ne intendeva di mogli e di
amanti, ma che si sposò soltanto alla fine. Forse restano fuori da questo
saggio proprio le pagine in cui il "calore del sangue" ha preso il
sopravvento, quelle pagine della vita dello scrittore che non conosceremo mai.
Quello che invece resta unico e centrale nell'opera della
Némirovsky è la figura della madre. Una madre, la sua, egoista e presa da se
stessa e dalla propria bellezza, ossessionata dal passare del tempo e che,
proprio per questo, vedeva nella figlia una nemica, una minaccia, un promemoria
vivente della sua età. Una madre che tentò quindi il più possibile di
respingerla nell'infanzia, per nascondere al mondo la prova del suo
inevitabile invecchiamento.
“Non
ho paura della vita. Sono soltanto gli anni di apprendistato. Sono stati
eccezionalmente duri, ma hanno temprato il mio coraggio e il mio orgoglio.
Tutto questo è mio, è la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia
solitudine è aspra e inebriante”.
Nelle parole di Hélène ne "Il vino della
solitudine" è facile ritrovare l'autrice e il suo rapporto difficile con
una madre che non seppe amarla. Così come è facile ritrovare il rapporto
complicato, fatto di cattiverie e dispetti, ne "Il ballo", breve
romanzo, o racconto lungo, storia della perfidia di un rapporto irrisolto.
"Il ballo" è una delle opere più famose della Némirovsky e forse
quella che meglio la rappresenta e che meglio aiuta a comprendere le sfumature
di questo rapporto complicato. Sfumature che sono state colte interamente e con
grande sensibilità da Sonia Bergamasco nello spettacolo teatrale che ne ha
tratto.
È però forse "Jezabel" il romanzo in cui più
ferocemente viene attaccata la madre, quello che ne mostra in modo più crudo le
bassezze, l'egoismo, l'ossessione per la propria bellezza e i tentativi
patetici di contrastare il passare del tempo. Ma anche la tristezza della
solitudine, l'aridità di una vita che non ha saputo andare oltre se stessa, che
non ha saputo amare altro che se stessa.
“Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora, di
un’estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una
gemma.”
Un regolamento di conti? O forse uno spunto per un romanzo di
straordinaria modernità, molto attuale ancora oggi?
Un romanzo che Fanny, la madre, conserverà chiuso nella
cassaforte fino alla morte, insieme ad altri scritti della figlia. Di Fanny
parlerà ancora Élisabeth Gilles, la figlia di Iréne, per raccontare il momento
terribile in cui, al termine della guerra, venne accompagnata con la sorella
Denise a casa della nonna. "Io non ho nipoti", rispose la donna senza
lasciarle entrare, aggiungendo che c'erano i sanatori per i bambini poveri
malati di pleurite come Denise.
Mirador è il romanzo scritto da Élisabeth, la figlia di
Irène, con l'aiuto della sorella Denise, la quale, in "Sopravvivere e
vivere" racconta il lavoro di ricerca intrapreso sulle tracce di una madre
che non avevano avuto il tempo di conoscere. Un lavoro che portò anche le due
sorelle a frequentarsi, conoscersi, riscoprire un rapporto interrotto. Perché
quella famiglia felice, che appare nelle foto, venne distrutta un giorno
dall'arrivo dei gendarmi che portarono via la madre.
"Siamo ridiscese dopo qualche minuto per salutare la
mamma che partiva per un viaggio... Ci siamo tenuti tutti per mano per
rispettare la vecchia usanza russa di restare un minuto in silenzio quando
qualcuno lascia i familiari per partire da solo... Non ci sono state lacrime...
appena qualche parola per raccomandarci di comportarci bene. Non sapevo che
sarebbe stato un viaggio senza ritorno."
Probabilmente nemmeno la madre, Irène Némirovsky, lo sapeva,
visto che poco tempo dopo scriveva al marito che non pensava sarebbe stata una
faccenda lunga. Entrambe le figlie sembrano rimproverarle questa fiducia nel
fatto che non sarebbe successo niente, il suo sentirsi al riparo in quello che,
pochi anni prima, aveva definito "il paese più bello del mondo".
Dalla gendarmeria di Toulon-sur-Arroux infatti faceva sapere di sentirsi calma
e forte. Sono strazianti i racconti delle figlie, delle loro attese alla
stazione, guardando quei treni dai quali i loro genitori non sarebbero mai
scesi.
Ma quando ripenso a questi rapporti interrotti, o quando vedo
le foto di Irène al mare che gioca con le figlie, mi viene in mente il suo
primo romanzo, "Il malinteso", quello che, dopo "Il calore del
sangue", considero il migliore. La protagonista si chiama infatti Denise,
il nome che Irène sceglierà per sua figlia, tre anni dopo la pubblicazione del
romanzo. È poi questo l'unico suo romanzo con una madre positiva, una madre
ancora giovane e bella, ma che cerca di trasmettere alla figlia ciò che ha
imparato dalla vita. Quello in cui l'influenza di Cechov è forse più forte
nella descrizione degli equivoci che muovono le azioni dei personaggi, in cui
il suo sguardo è più sferzante e ironico, e più forte il botto con cui le
illusioni e i sogni dei protagonisti si infrangono contro la realtà.
Se "Il malinteso" fu il primo romanzo della
Némirovsky, "David Golder" fu invece quello che le diede il successo,
la prima pubblicazione. Pare infatti che l'editore Grasset, dopo aver letto il
manoscritto, mise un'inserzione su un giornale per rintracciare l'autore e,
quando si ritrovò davanti una donna, giovane ed elegante, restò perplesso,
dapprima, non volle credere che, proprio lei, avesse scritto un romanzo tanto
crudele e spietato. È infatti la storia della vita arida di un ricco banchiere
ebreo, della sua corsa verso una ricchezza con la quale credeva di poter
comprare qualsiasi cosa, inclusi l'affetto e l'amore di una famiglia. È facile
riconoscere, nel banchiere ebreo, il padre di Irène e, nella moglie arrivista e
infedele, la solita Fanny. Mentre leggevo, però, a distanza di una ventina
d'anni, mi è sembrato di rivedere l'immagine, ormai sbiadita, del "Foma
Gordeev" di Gorki. Sono molte infatti le similitudini tra le parabole dei
due protagonisti, le loro solitudini, le loro sconfitte. Un altro regolamento
di conti? La letteratura russa che, ancora, torna?
Indubbiamente "David Golder" contribuì ad
alimentare il sospetto di antisemitismo che ogni tanto affiora intorno alla
figura della Némirovsky, anche se credo che si debba dare ragione alla figlia
Denise: leggiamo "David Golder" con il senno di poi, del dopo
olocausto, senza contestualizzarlo: "più che una manifestazione di
antisemitismo, una critica sociale dell'ambiente che aveva conosciuto e
odiato".
In fondo non è molto diverso da quando un esterrefatto Philip
Roth si vide accusare di antisemitismo all'uscita di "Goodbye
Columbus". E non molto lontano dalle tematiche di Phillip Roth e della
letteratura contemporanea è soprattutto "Il signore delle anime", uno
dei romanzi più belli della Némirovsky, con uno tra i personaggi più complessi
e controversi, il levantino Dario Asfar, un ciarlatano che riuscirà a farsi
strada nel mondo, ma che non riuscirà a sfuggire a se stesso e alla sua natura.
"Io credo che esista una fatalità, una maledizione. Credo che il mio
destino era di essere un mascalzone, un ciarlatano ... Non si sfugge al proprio
destino."
Proprio "Il signore delle anime" venne pubblicato a
puntate sulla rivista Gringoire. Rivista che era fortemente schierata da una
certa parte politica, il che porta a volte a rafforzare quell'idea di
antisemitismo della Némirovsky, di odio verso se stessa e le proprie origini. È
però vero che le riviste letterarie del tempo, come Comoedia, Candide e
Nouvelles littéraires, avevano un po' tutte lo stesso atteggiamento e, accanto
alla politica, pubblicavano racconti di altri grandi autori, tra cui uno
scrittore ebreo le cui opere, come quelle della Némirovsky, sono state
cancellate dalla furia nazista ma sono tornate a vivere, molti anni dopo
la sua morte, grazie alla loro straordinaria modernità: Stefan Zweig.
Tra il 2010 e il 2013 ho letto tutti i libri della
Némirovsky, divorandoli in modo bulimico, appena mi capitavano tra le
mani, in francese o tradotti in italiano. Adesso, dopo averli ripresi, dopo
averne rilette alcune parti, credo che avrei dovuto diluirli nel tempo,
lasciarne qualcuno per gli anni a venire. Solo adesso infatti mi rendo conto di
quanto sia complessa e articolata la sua opera, che intreccia la letteratura
classica russa con quella contemporanea occidentale. Ci sarebbero molti altri
romanzi di cui parlare, che offrirebbero nuovi spunti di discussione.
Soprattutto meriterebbe maggiore spazio "Due", il romanzo che mette
in scena il dramma del matrimonio, quello che la figlia Élisabeth racconta di
aver letto avidamente e di nascosto. Il romanzo nel quale Liliane Studer, in
uno dei tanti articoli che dedicò alla Némirovsky sulla Faz, vide il matrimonio
come una metafora della guerra, il campo di battaglia di una generazione,
quella tra le due guerre, che aveva perso ogni ideale, ma anche la capacità di
instaurare delle relazioni autentiche e durature. Un romanzo all'apparenza
banale, come apparentemente banale è la quotidianità borghese, la facciata
dietro la quale si sgretolano le illusioni e si consumano i drammi peggiori.
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