Ero alla Mondadori con mia sorella, quando per caso l'ho visto. "Un libro allegro," ha commentato mia sorella. Il titolo in effetti è macabro, ma non me ne importava niente, nemmeno avevo mai sentito nominare questo racconto, soltanto ero interessata a lei: Anna Seghers, un'autrice a cui non avevo mai prestato molta attenzione, preferendo la sua amica Christa Wolf. Per anni infatti mi ero imbattuta nella sua foto sul libro di letteratura tedesca, senza che mi venisse voglia di approfondire la scrittrice marxista che mi guardava, con i capelli raccolti sulla nuca. La stessa scrittrice che, con la stessa pettinatura, ma i capelli completamente bianchi, parlava con Thomas Mann qualche pagina più in là.
Poi qualche mese fa ho letto "La mia vita" di Marcel Reich-Ranicki e Anna Seghers, per la prima volta, ha iniziato ad incuriosirmi. A suscitare la mia curiosità non è stato tanto il racconto di MRR che leggeva appassionatamente "La settima croce" nel carcere di Varsavia, quanto l'aneddoto del suo successivo incontro con la Seghers, quando lei respinse i suoi complimenti, sostenendo di aver ricalcato la struttura de "I promessi sposi". Il grande critico lesse allora il romanzo italiano e, non trovando nessuna attinenza, concluse che gli scrittori capiscono la letteratura quanto gli uccelli l'ornitologia.
In mancanza de "La settima croce", mi sono per il momento accontentata di questo breve racconto, che è anche uno dei rari testi autobiografici della Seghers. L'edizione Marsilio ha poi il vantaggio del testo originale a fronte.
La traduzione italiana di Rita Calabrese è ottima e non altera il ritmo della prosa originale, nonostante la Calabrese avverta nella prefazione riguardo l'impossibilità di rendere alcune sfumature. La patria della Seghers, per esempio, è Heimat, il che costituisce una presa di distanza dal termine "nazista" Vaterland.
Il racconto è breve, eppure denso e ricco di personaggi. L'autrice li osserva con malinconia per quel giorno lontano, in cui i loro problemi erano gli stessi di tutti gli adolescenti e il loro mondo era ancora intatto, il loro paese indiviso. Con stupore si chiede poi come sia possibile che il loro futuro sia stato proprio quello.
Su tutte le ragazze, spiccano Marianne e Leni, amiche come "vere sorelle", ma che poi si troveranno su fronti opposti. Ci sono ragazzi che solo qualche anno dopo cadranno in guerra, ma a loro verrà risparmiato il destino dei sopravvissuti, che saranno costretti ad esporre la bandiera con la svastica per non perdere un impiego statale.
C'è Nora, felice di sedere accanto all'insegnante prediletta, cui in seguito intimerà di alzarsi da una panchina perché vietata agli ebrei.
E sullo sfondo la narratrice, la timida Netty Reiling, non ancora Anna Seghers. Una ragazza brava a scrivere e ad osservare la vita intorno a lei, fino al dramma che toccherà la sua famiglia. Con il tempo Netty è scomparsa, ritirata da qualche parte, nel profondo della donna con i capelli raccolti sulla nuca, ma riaffiora il suo urlo: "Und ich brauch doch so schrecklich Freude" ("E io ho così spaventosamente bisogno di gioia").
Poi qualche mese fa ho letto "La mia vita" di Marcel Reich-Ranicki e Anna Seghers, per la prima volta, ha iniziato ad incuriosirmi. A suscitare la mia curiosità non è stato tanto il racconto di MRR che leggeva appassionatamente "La settima croce" nel carcere di Varsavia, quanto l'aneddoto del suo successivo incontro con la Seghers, quando lei respinse i suoi complimenti, sostenendo di aver ricalcato la struttura de "I promessi sposi". Il grande critico lesse allora il romanzo italiano e, non trovando nessuna attinenza, concluse che gli scrittori capiscono la letteratura quanto gli uccelli l'ornitologia.
In mancanza de "La settima croce", mi sono per il momento accontentata di questo breve racconto, che è anche uno dei rari testi autobiografici della Seghers. L'edizione Marsilio ha poi il vantaggio del testo originale a fronte.
La traduzione italiana di Rita Calabrese è ottima e non altera il ritmo della prosa originale, nonostante la Calabrese avverta nella prefazione riguardo l'impossibilità di rendere alcune sfumature. La patria della Seghers, per esempio, è Heimat, il che costituisce una presa di distanza dal termine "nazista" Vaterland.
Il racconto è breve, eppure denso e ricco di personaggi. L'autrice li osserva con malinconia per quel giorno lontano, in cui i loro problemi erano gli stessi di tutti gli adolescenti e il loro mondo era ancora intatto, il loro paese indiviso. Con stupore si chiede poi come sia possibile che il loro futuro sia stato proprio quello.
Su tutte le ragazze, spiccano Marianne e Leni, amiche come "vere sorelle", ma che poi si troveranno su fronti opposti. Ci sono ragazzi che solo qualche anno dopo cadranno in guerra, ma a loro verrà risparmiato il destino dei sopravvissuti, che saranno costretti ad esporre la bandiera con la svastica per non perdere un impiego statale.
C'è Nora, felice di sedere accanto all'insegnante prediletta, cui in seguito intimerà di alzarsi da una panchina perché vietata agli ebrei.
E sullo sfondo la narratrice, la timida Netty Reiling, non ancora Anna Seghers. Una ragazza brava a scrivere e ad osservare la vita intorno a lei, fino al dramma che toccherà la sua famiglia. Con il tempo Netty è scomparsa, ritirata da qualche parte, nel profondo della donna con i capelli raccolti sulla nuca, ma riaffiora il suo urlo: "Und ich brauch doch so schrecklich Freude" ("E io ho così spaventosamente bisogno di gioia").
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