"There's always one morning when you realize that the birds have all gone."
Quando dalla radio mi arrivò la notizia del Nobel alla Munro mi sentii molto felice. Un po' perché mi sembrava quasi di averla scoperta io, un po' perché quel Nobel riabilitava un genere letterario bistrattato: il racconto.
E io credo che sia stato anche merito della Munro se amo i racconti, perché ho iniziato a leggere i suoi moltissimi anni fa, quando mia madre comprò un suo libro e non le piacque. A me invece piacevano moltissimo quei racconti che fotografavano i personaggi in un determinato momento della loro vita, ma riuscivano a far emergere il loro passato e tutto quello che sarebbero stati (o non sarebbero stati) in futuro. Erano personaggi comuni, non c'era niente di eroico in loro, ma era proprio la straordinarietà della loro normalità a renderli interessanti, i loro lati meno ammirevoli e più umani. Perché la Munro raccontava questo: l'umanità. E la raccontava senza sconti ipocriti, a volte persino in modo spietato.
La notizia della sua morte mi è arrivata per caso, mentre ero distratta da altro. E quando ho cercato un articolo che celebrasse quella morte, mi sono trovata davanti la storia terribile della figlia. Mi è dispiaciuto come dispiace quando si scopre qualcosa di spiacevole su qualcuno che ci piace. Non credo che si debba separare l'opera dello scrittore dall'essere umano. Credo che in ogni scrittore e in ognuna delle sue opere ci sia l'essere umano, con il suo vissuto e con quello che è. Soprattutto se è un grande scrittore. Credo soltanto che si debba accettarlo, che si debba accettare che un grande scrittore possa non essere un grande essere umano, che si debba accettare che non abbia guardato i propri personaggi dall'alto, ma che sia stato uno di loro. E che forse, se come essere umano fosse stato migliore, non sarebbe stato così grande come scrittore.