Il venerdì si sentiva nell’aria della mattina, rinfrescata dal violento temporale della notte, e nel sole luminoso che faceva sperare in un bel weekend. L’ultimo weekend di giugno: anche luglio si sentiva ormai nell’aria.
“E’ morto Michael Jackson”, ha detto la voce femminile proveniente dalla radio.
Per un momento, all’improvviso, la giornata si è oscurata. E’ morto Michael Jackson, ho pensato e una serie di immagini della mia adolescenza e della mia giovinezza sono all’improvviso apparse davanti ai miei occhi.
Da anni non pensavo a Michael Jackson, da anni non ascoltavo nemmeno più le sue canzoni, eppure quelle canzoni e quei video sono stati la musica di sottofondo di una lunga parte della mia vita.
Ricordo un’estate al mare con mia sorella, quando mia nonna stava morendo, ascoltavamo Michael Jackson da due paia di cuffie collegate allo stesso walkman e ci stringevamo forte la mano. Just another part of me...
Avevo dodici anni, facevo le medie, quando la risata di Thriller riecheggiava dalle radio, ne avevo diciotto ed ero a Monaco quando andai ad un suo concerto. Erano i tempi di Bad e The way you make me feel era la mia canzone preferita. Ero andata al concerto con un’amica conosciuta a Monaco, ma, una volta entrate all’Olimpiastadion, avevamo dovuto separarci perché avevamo posti assegnati lontani. Eppure non mi sentii sola nemmeno per un momento, un po’ grazie alla ragazza tedesca seduta accanto a me, con cui feci amicizia, e un po’ perché il concerto era spettacolare, il migliore a cui avessi mai assistito (e a quei tempi assistevo a molti concerti).
I tedeschi erano entusiasti già prima dell’inizio, la supporter era Kim Wilde. Ho un ricordo di luci, di musica e balli che fino a quel momento avevo visto solo alla televisione. Quando il concerto finì ero felice, camminai insieme alla folla fin fuori dallo stadio e dal villaggio olimpico e salii sull’autobus che mi avrebbe lasciato in una zona residenziale, alla periferia di Monaco. Era una zona di case basse e di villette con giardino, le strade erano buie e strette, costeggiate da cespugli, ma io non avevo paura, nemmeno ci pensavo ad averne. Quella sera ero felice, avevo diciotto anni, mi sentivo adulta e serena. La mia vita mi stava davanti ma io me la sentivo già dentro.
Era l’8 luglio 1988, sono passati ventun anni, ora Michael Jackson è morto, dopo le accuse di pedofilia, dopo anni in cui non ha tenuto concerti e in cui io non ho più ascoltato le sue canzoni.
Seguii distrattamente il processo per pedofilia, pensando che probabilmente era colpevole. Qualche volta guardai con orrore il suo volto sui giornali, completamente diverso da quello dei tempi di Thriller, un volto spaventoso e stravolto, in cui restava ben poco di umano.
Ora guardo i filmati che lo commemorano, rivedo i suoi video, riascolto le sue canzoni e mi rendo conto di averle dimenticate per tanto tempo. Eppure mi piacciono ancora e capisco perfettamente perché mi piacessero vent’anni fa: Michael Jackson inventò un genere musicale diverso da tutti quelli che l’avevano preceduto, un genere musicale fatto di eccessi e di gioia di vivere che rispecchiava gli anni Ottanta e chi a quei tempi aveva vent’anni.
Ascolto per la prima volta il suo discorso per scagionarsi dalle accuse. E se fosse vero? mi chiedo. Se avesse avuto ragione, se fosse stata solo una manovra di qualcuno per derubarlo? Quanto può essere devastante essere accusati di qualcosa di terribile che non si farebbe mai, sapendo che, comunque vadano le cose, l’accusa lascerà per sempre un’ombra di sospetto?
“Sarebbe spaventoso,” ho detto alla mia amica C. e lei ha annuito.
Non lo sapremo mai, non sapremo mai se quelle accuse erano vere o false.
Anche la mia amica C. è triste, ci sentiamo entrambe malinconiche, la nostra giovinezza è più vicina e più lontana allo stesso tempo, anche se non ci pensiamo mai molto, anche se non ci pesa più di tanto il fatto di avere quarant’anni, semplicemente perché dentro di noi non siamo del tutto convinte di averli veramente. Qualche volta ci guardiamo perplesse, chiedendoci reciprocamente con lo sguardo se davvero sono passati vent'anni da quando avevamo vent'anni.
Sua figlia V. appoggia il viso imbronciato tra i pugni delle mani. Non capisce di cosa parliamo e si sente esclusa dal nostro discorso.
Le sorrido.
“E tu?” le chiedo. “Lo conosci Michael Jackson?” mi guarda stupita, con gli occhi spalancati, e scuote la testa.
V. avrà quindici anni nel 2020, a quei tempi conoscerà Michael Jackson perché le sarà capitato di ascoltare le sue canzoni e vedere i suoi video e lo troverà terribilmente ridicolo, si chiederà perché mai a sua madre e alle sue amiche piacessero quelle canzoni e quel modo di ballare. E’ successo anche a noi quando siamo state a Graceland e dicevamo che Elvis Presley era kitsch e aveva la faccia da fegato.
Michael Jackson è stato un’epoca, la nostra di quando avevamo tra i quindici e i venticinque anni.
E mentre riguardo i suoi video su youtube, presa da un’improvvisa voglia di ascoltare canzoni che conosco a memoria e che avevo dimenticato per vent’anni, ripenso al mio amico, mi sembra di rivederlo camminare veloce per la strada nella quale siamo cresciuti, con la giacca e i pantaloni neri. E’ da quando ho sentito alla radio la notizia della morte di Micheal Jackson che evito questo ricordo, quello di un ragazzo che aveva ventidue anni, che avrebbe dovuto compierne ventitrè e che invece è rimasto giovane per sempre. Lui morì diciotto anni fa, poco prima dell’uscita di Dangerous, e fu sepolto con la bandiera di Michael Jackson.