«Gli squadroni hanno bruciato i neonati nei forni delle cucine, hanno sventrato le donne e tagliato le teste per posarle sulle soglie delle case, e sgozzato le bambine per il piacere di Dio. Alla fine dell'anno 1999, due di loro si erano avvolte in una grossa coperta con sopra il disegno di una tigre mentre l'anno e il secolo spiravano in un brusio di carta e vento sopra il tetto. Una ha chiuso gli occhi e li ha riaperti a Oran, l'altra non li aprirà mai più.»
Aube significa alba ed è il nome che le ha dato la sua seconda madre, in quell'alba di inizio millennio in cui l'ha fatta rinascere, a cinque anni. Muta, o quasi. Il suo vero nome, quello della vita di prima, ritorna solo nei sogni, quando riappare la sorella adorata, che continua a chiamarla con quel nome.
In Algeria nessuno parla della guerra civile che ha infuocato il paese negli anni Novanta, perché non si può. Si parla della guerra di indipendenza dalla Francia, ma non della guerra in cui algerini hanno versato il sangue di altri algerini. Ma Aube non ricorda la guerra di indipendenza, ricorda invece l'altra guerra, di cui porta un sorriso terribile, che va da un orecchio all'altro.
Aube indossa i jeans e è proprietaria di un salone di bellezza in un paese in cui tutto questo è strano.
«Qui, una donna non esce sola, non alza gli occhi da terra quando cammina per strada, non parla nemmeno con chi l'accompagna, non viaggia senza un protettore uomo e non porta pantaloni che sottolineano la sua silhouette come una seconda pelle.»
Quando si rende conto di essere incinta, decide di abortire, perché vuole che sua figlia continui a vivere in paradiso, come le urì, eterne ragazze. Prima però vuole raccontarle la sua storia, perché quella figlia è l'unica che può sentire la sua voce interiore. Allora ripercorre a ritroso il percorso da Oran al villaggio che ha lasciato quella notte del 31 dicembre 1999 e la sua storia si mescola a quella delle persone che incontra e a quella di un intero paese, dove ognuno ha preso il nome che ha trovato e dove non si riconoscono più le vittime dai terroristi, come fratelli gemelli, come ombre che vivono una accanto all'altra, con il senso di colpa dei sopravvissuti, che hanno chiuso gli occhi per sembrare morti.
Ho comprato questo libro dopo aver letto la notizia che lo scrittore non sarebbe venuto alla Milanesiana perché avrebbe corso il rischio di essere arrestato. È un autore che non conoscevo ma ho trovato molto bello questo romanzo, che, nonostante racconti storie terribili, mantiene una scrittura delicata e quasi lirica, un lungo racconto in cui la voce interiore di Aube conserva la calma e il dolore di chi è morto già una volta.
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