«Non sono un senatore, un governatore, un ex segretario di gabinetto. Non ho dato vita a un'impresa da un milione di dollari o a una società non profit in grado di cambiare il mondo. Ho un buon lavoro, un matrimonio felice, una bella casa e due cani vivaci.»
Nell'introduzione al suo libro, pubblicato nel 2016, J.D. Vance considera che difficilmente qualcuno leggerebbe l'autobiografia di uno sconosciuto di poco più di trent'anni. In effetti io ho comprato il libro dopo la sua candidatura a vicepresidente. Per qualche motivo non sapevo nulla di questo libro e, anche se mi era capitato sotto gli occhi, non gli avevo prestato attenzione. L'ho comprato perché si legge per capire, per guardare da altri punti di vista ma non sapevo bene cosa aspettarmi quando ho iniziato a leggere.
Il titolo italiano, "Elegia americana", è fuorviante e generico. Quello originale, "Hillbilly Elegy", è però complicato da tradurre, una parola sola non basta e il libro stesso è il tentativo di spiegarlo.
«Jackson è senza dubbio piena delle persone più adorabili; è però piena anche di drogati e un uomo può trovare il tempo di fare otto figli ma non può trovare il tempo di supportarli.»
È la storia di un sogno che si realizza, il sogno voluto fortemente dai nonni e trasmesso al nipote. Ma in mezzo c'è la desolazione di un bambino che ha cambiato padre più volte, di una madre con problemi di tossicodipendenza, una serie di fratellastri e sorellastre che compaiono e spariscono, tranne una. È una storia di fatica, di perdite, del peso di tutto quello che ci si porta dietro quando si nasce nel luogo sbagliato, con la famiglia sbagliata. Di quanto i traumi infantili restino appiccicati addosso e condizionino il resto della vita. Di quanto sia più difficile e faticoso quando non si appartiene ai giri giusti, non si hanno le conoscenze giuste.
Non è un libro facile ma mi è piaciuto moltissimo e ci ho trovato qualcosa di Roth, nel senso di non appartenenza, nel passato da cui non ci si libera («Non dovevo essere li. Avevo costruito la mia intera vita proprio per evitare quel tipo di posti.»). Un passato con cui però ci si può rappacificare, smettere di vergognarsi.
Il titolo italiano, "Elegia americana", è fuorviante e generico. Quello originale, "Hillbilly Elegy", è però complicato da tradurre, una parola sola non basta e il libro stesso è il tentativo di spiegarlo.
«Jackson è senza dubbio piena delle persone più adorabili; è però piena anche di drogati e un uomo può trovare il tempo di fare otto figli ma non può trovare il tempo di supportarli.»
È la storia di un sogno che si realizza, il sogno voluto fortemente dai nonni e trasmesso al nipote. Ma in mezzo c'è la desolazione di un bambino che ha cambiato padre più volte, di una madre con problemi di tossicodipendenza, una serie di fratellastri e sorellastre che compaiono e spariscono, tranne una. È una storia di fatica, di perdite, del peso di tutto quello che ci si porta dietro quando si nasce nel luogo sbagliato, con la famiglia sbagliata. Di quanto i traumi infantili restino appiccicati addosso e condizionino il resto della vita. Di quanto sia più difficile e faticoso quando non si appartiene ai giri giusti, non si hanno le conoscenze giuste.
Non è un libro facile ma mi è piaciuto moltissimo e ci ho trovato qualcosa di Roth, nel senso di non appartenenza, nel passato da cui non ci si libera («Non dovevo essere li. Avevo costruito la mia intera vita proprio per evitare quel tipo di posti.»). Un passato con cui però ci si può rappacificare, smettere di vergognarsi.
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