martedì 18 marzo 2014

Viandante, se giungi a Spa...


Sto leggendo una raccolta dei migliori racconti tedeschi selezionati da Marcel Reich Ranicki e così mi sono imbattuta in un racconto che non leggevo da tempo: “Viandante, se giungi a Spa…” di Heinrich Böll. Di questo scrittore preferisco decisamente i racconti, soprattutto quelli della guerra, piuttosto che i romanzi, anche se fu proprio un romanzo a valergli il Nobel. E non solo perché il racconto si adatta alla dimensione precaria degli autori di questa generazione, ma perché credo che Böll sia uno di quegli scrittori, come Cechov o la Munro, capaci di delineare in poche pagine situazioni e personaggi, ai quali non è necessaria una parola in più. A parte questo, Böll è incredibilmente distante sia da Cechov che dalla Munro. Direi anzi che gli scrittori tedeschi della sua generazione sono distanti da tutto il resto del mondo, esclusi nella stessa solitudine che circonda i loro personaggi e che ne costituisce la tragedia. I racconti di Böll, soprattutto questo, sono distanti anche dal Böll successivo, il predicatore dei romanzi, che prende di mira la società consumistica.
In lingua originale, la prosa dell’autore è scarna, addirittura squallida e perfettamente consona allo squallore che descrive. Ho sempre pensato che fosse una prosa “onomatopeica”, che traduce esattamente in parole il senso di desolazione dei personaggi. Si tratta però di una prosa estremamente incisiva, mi sono infatti stupita di come, dopo così tanti anni, le parole di quell’incipit mi siano risultate familiari, come se, involontariamente, avessi sempre continuato a ricordarlo.Il racconto inizia con un’auto e il fatto di soffermarsi a parlare di un mezzo meccanico dà subito l’idea di quanto poco conti l’azione umana, di come le vicende si dispieghino dal di fuori, attraverso un mezzo inumano e non governabile da parte del protagonista, mentre sullo sfondo si staglia lo scenario apocalittico di una città che brucia. Per forza di cose, il protagonista “è agito”, trasportato prima in auto e poi in una barella, all’interno di una scuola, trasformata in un ospedale di fortuna. Oltre all’impotenza umana e alla mancanza di controllo degli eventi, però, risalta il fatto che, in un momento tragico, i pensieri del soldato ferito non siano drammatici e nemmeno rivolti alla sua famiglia, di cui non si sa nulla, oppure alla preoccupazione per la propria condizione fisica. Il suo interesse principale sembra essere quello di convincere se stesso, contro ogni evidenza, che quella scuola non può essere la sua, che gli elementi in cui gli sembra di riconoscerla sono gli stessi che si trovano in tutte le scuole, perché tutte le scuole sono uguali. Mi piace pensare che la sua preoccupazione sia quella di conservare in un luogo tranquillo e sicuro il suo passato, la sua vita di prima, a cui forse spera ancora di tornare, anche se ora il mondo, la sua vita e lui stesso sono completamente diversi da tre mesi prima, quando era uno studente in quella stessa scuola.
I riferimenti ad un passato diverso sono presenti fin dal titolo, preso da una traduzione di Schiller dal greco, ma nello stesso tempo il riferimento indica anche la ripetitività degli avvenimenti. La città, il cui nome è rimasto incompleto, è l’eroica Sparta delle Termopili, ma anche la città belga di Spa, quartier generale tedesco della prima guerra mondiale.
La tragedia esplode proprio quando, portato nell’aula di disegno, il soldato legge sulla lavagna la scritta e riconosce la propria scrittura. A quel punto non ci sono più scuse, non può più cercare di convincersi di essere in un altro luogo perché quella scritta lo mette di fronte a se stesso, quello che era e che non tornerà più, una persona profondamente diversa, lo studente che ha scritto con dei caratteri troppo grossi. Quella frase incompiuta, che in tre mesi non è stata cancellata, è la prova di un mondo cancellato e di una vita persa.
Non è un racconto rassicurante, è un racconto che trasmette un forte malessere, soprattutto se lo si legge prima di addormentarsi. Ma questo malessere è il suo punto di forza, l’unicità che ci fa sentire vicino, e al tempo stesso lontano, un protagonista di cui non si sa molto ma di cui non importa sapere di più. E’ il senso di malessere a far apparire questo racconto bellissimo e a farci percepire un dolore insondabile, che per noi resta comunque misterioso. E per qualche strano motivo viene spontaneo toccarsi le braccia e le gambe.